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Newsletter Culmine e Fonte n. 4/2016 articoli

Newsletter Culmine e Fonte n. 4/2016

Sommario:

 

Le sette opere di misericordia corporale nei percorsi artistici romani
Maria Novella Lorenzale

Nel corso di uno dei più intensi discorsi tenuti alle folle prima della Passione, Gesù affronta l’argomento delle relazioni umane, precisando con chiarezza l’ undicesimo comandamento: «Ama il prossimo tuo come te stesso… da ciò dipende tutta la legge e i profeti» (Mt 22,39-40). «È più che tutti gli olocausti e i sacrifici» (Mc 12, 31). Inoltre Gesù sottolinea sei comportamenti  misericordiosi (Mt 25, 35 e seg.): dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accudire i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati. «Chi crede in me farà le opere che io faccio» (Gv 12,12); «Se sapete queste cose voi siete beati» (Gv 13, 17); «Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate l’un altro come io vi ho amati,…. da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli» (Gv 13, 34-35. 15,12); «Voi sarete miei amici se farete tutte le cose che io vi comando» (Gv 15, 14).
Come si evince dai passi dei Vangeli di Matteo e Giovanni, le opere di misericordia hanno effetti sulla salvezza e sul giudizio finale, concetto assai chiaro agli esegeti dei primi secoli cristiani; ma nonostante si trattasse di una tematica di grande centralità, ci sono pervenute testimonianze figurative solo a partire dal XII secolo, subordinate a scene di maggior impatto visivo e pedagogico, quali le rappresentazioni di vizi e virtù, o nel Giudizio Universale . Nella Pinacoteca dei Musei Vaticani è conservata una tavola lignea dipinta a tempera, di insolita forma rotonda con base rettangolare, che fino al sec. XVII era visibile nell’oratorio di S. Gregorio Nazianzeno in Campo Marzio. La ripartizione in cinque registri sovrapposti permette la raffigurazione di più scene: a) Giudizio di Dio che regge il mondo tra serafini e angeli; b) Cristo assiso in trono tra gli Apostoli e angeli; c) San Paolo che guida gli eletti, la Vergine e santo Stefano tra altri santi, opere di misericordia (vestire gli ignudi, visitare i carcerati, dar da mangiare e bere agli affamati e afflitti da infermità); d) Visione dell’inferno e del paradiso; e) La Vergine accoglie gli eletti nella Gerusalemme celeste e accoglie al suo cospetto le due donatrici . L’artista adopera uno stile più ieratico per la teofania e una narrazione spontanea, movimentata e sintetica per le altre scene. Particolarmente efficaci sono le rappresentazioni del carcerato con una mano alla guancia, nell’atteggiamento del “dolente”, già noto nell’iconografia paleocristiana catacombale, e la rara figurazione dell’infermo avvolto nel sudario a cui un personaggio misericordioso offre con una mano del cibo e con l’altra una coppa. Indubbiamente la tavola costituisce uno dei più antichi modelli di diffusione iconografica del tema in questione, non solo a Roma, ma anche in Italia. Lo stile ricorda quello delle pitture della Basilica sotterranea di  S. Clemente a Roma, ma con accenni  di  descrizione ambientale e spaziale più solidi e aggiornati che la rendono ascrivibile alla scuola romana della metà del sec. XII [fig. 1].
Nel corso del medioevo la tematica delle opere di misericordia sembra intensificarsi nella scultura architettonica d’oltralpe  e, intorno al XVI secolo, nella pittura fiamminga alimentata da una corrente di pensiero religioso, la Devotio moderna, che si incentra sulla personalità di Cristo come esempio di perfezione in contrapposizione all’imperfezione della creatura umana, e si completa con la meditazione personale della Bibbia e delle vite dei santi. La riforma dei comportamenti morali alimenterà nel secolo successivo un dibattito feroce tra riformisti protestanti e controriformisti cattolici sulla potenza salvifica delle opere, ma nonostante le divisioni religiose e politiche tra olandesi, in prevalenza anticattolici, e i fiamminghi delle Fiandre (o Paesi Bassi Spagnoli), gli intenti pedagogici dei pittori rimanevano comuni, tutti ugualmente imbevuti di umanesimo e devotio moderna. Pittori olandesi dei primi anni del 1500, come Cornelis Buys di Alkmaar  , esortavano ai buoni comportamenti illustrando dettagliatamente tutte le sette opere di misericordia [fig. 2]; i fiamminghi come Bosch e, successivamente, la dinastia dei Brueghel  e dei Teniers, ridicolizzavano spietatamente le debolezze e i difetti e i vizi, incutendo anche qualche paura dell’ Inferno. Nonostante i contatti tra pittura italiana e fiamminga non fossero mai mancati dal medioevo in poi, a Roma l’iconografia delle sette opere complete è estremamente rara, probabilmente a causa della forte contaminazione con la dottrina protestante, che ne utilizzava alcuni degli aspetti morali contro la stessa Chiesa. In Italia, dopo il trionfo della Controriforma, con l’istituzione del rito tridentino e il conseguente riordino della dottrina, il catechismo si occupa del completamento del “settenario morale”, per analogia con altri già noti , aggiungendo il “seppellire i morti”, per richiamare l’attenzione sulla santità del corpo umano in quanto contenitore dell’anima, destinato alla trasfigurazione in corpo glorioso dopo il giudizio finale. Inoltre si giungeva allo sdoppiamento delle opere di misericordia in corporali e spirituali. La Chiesa di Roma intendeva così rimarcare, in contrasto con quanto sostenuto da Lutero, che la preghiera e la fede erano nulle senza le opere (Gc 2, 17), altrimenti si vanificava il progetto di salvezza secondo il disegno della Provvidenza, secondo la vita e le opere di Gesù.
Dobbiamo attendere l’esilio coatto da Roma del Caravaggio per vedere sette opere rappresentate nel loro insieme. Sappiamo che nel 1606 Michelangelo Merisi, colpevole di omicidio, perse tutte le protezioni e gli appoggi di chi lo stimava come artista; gli si prospettò la possibilità di una fuga fuori dello Stato della Chiesa, in attesa prima del processo, poi della grazia: giunto a Napoli, realizzò la pala delle Sette opere di misericordia corporali [fig. 3] destinata al Pio Monte di Pietà, istituto sorto per contrastare le sperequazioni degli usurai non cristiani.
La scena è concitata e drammatica: un concentrato di vicende umane, sulle quali veglia il Bambino con la Madonna, mentre gli angeli gesticolanti richiamano l’uomo di Chiesa (il chierico con la torcia) a portare luce e intervenire per le necessità umane. Ma forse racchiude anche una velata invocazione per ottenere misericordia nella sua vicenda. Procedendo da sinistra, il gruppo di figure più in risalto rappresenta sinteticamente il nutrire gli affamati che sono anche carcerati, secondo l’antica iconografia della “Carità Romana”, in cui il vecchio Cimone, essendo un prigioniero condannato a morte per inedia, viene sostentato dal latte della figlia Pero, da poco divenuta madre . Di un morto da seppellire si vedono i piedi; nel gruppo di figure a sinistra sono visibili un pellegrino con la tipica conchiglia sul cappello da viaggio, cui viene offerta ospitalità; l’assetato è Sansone, che molto aveva ucciso ma si dissetava, per miracolo di pietà e provvidenza del Signore, con l’acqua scaturita dalla stessa mascella d’asino usata come arma; a terra si vede lo storpio-infermo; di fronte un personaggio ben vestito che cede il suo mantello all’ignudo.
Al di fuori di questa intensa rappresentazione, da questi anni in poi si avvia la progressiva frantumazione del settenario in singoli aspetti narrativi. Un esempio ci viene fornito nuovamente dalle opere di Caravaggio: la pala è conservata nella cappella dedicata alla Madonna di Loreto, nella Chiesa di S. Agostino a Roma, conosciuta come Madonna dei Pellegrini (1603) [fig.4]. Maria è raffigurata come una popolana, appoggiata allo stipite della porta, con un pesante Bambino in braccio; sulla soglia, due pellegrini consumati e logorati dalla fatica e coi piedi sporchi della polvere del cammino, implorano accoglienza in ginocchio: era la quarta opera di misericordia. Ma il crudo realismo strideva fortemente in un luogo di culto.
Nello stesso periodo Domenico Zampieri, detto il Domenichino, assai stimato dal colto e fine intellettuale monsignor Giovanni Battista Agucchi , aveva ottenuto un incarico di grande visibilità, quale la decorazione della cappella Polet (1614), presso la chiesa di S. Luigi dei Francesi, dedicata alla vita e alle opere di carità di S. Cecilia. Nella Roma del 1600 la scelta narrativa cadeva sulla figura della santa che più aveva sorpreso i romani in quegli anni: la tomba, ritrovata casualmente durante alcuni lavori nella cripta S. Cecilia in Trastevere, conteneva le sue spoglie intatte . Lontanissimo dagli impeti caravaggeschi, il giovane Domenico rappresentava l’ atto di carità di una ricca fanciulla che, rinunciando a qualcosa di sé, vestiva gli ignudi, donando abiti e stoffe ai bisognosi della città di Roma [fig. 5]. La resa pittorica descrittiva e movimentata, elegante nella forma ma vivace, stupisce per la capacità di esprimere la concitazione dei beneficiati che si contendono i vestiti, se li provano, o si cimentano in una contrattazione improvvisata per rivenderli a otto [scudi] come si evince dal gesto eloquente di un personaggio . Domenichino, aderendo ai dettami iconografici controriformisti sul recupero di un linguaggio chiaro nelle immagini, ispirato e didascalico nel contenuto, disciplinava quel realismo pauperista e popolano di sapore caravaggesco, spesso rifiutato come un oltraggio al sacro. Il richiamo all’umanità dei mendicanti e degli “ultimi”, veniva relegato esclusivamente a un genere pittorico specifico definito “bambocciata”, che si affermò nei luoghi dove Caravaggio aveva lasciato il segno: a Roma Peeter Van Laer nel Venditore di frittelle [fig.6] e Dirck Van Barburen, ne Il mendicante , evocavano il riferimento ai poveri e agli affamati, una sorta di memento per la misericordia, tale da giustificarne il diffuso collezionismo privato di prelati e laici.
Nel Vangelo le affermazioni di Gesù «Non di solo pane vive l’ uomo… Io sono il pane vivo disceso dal Cielo», indirizzano verso il tema dell’Ultima Cena. Il Pane vivo è offerto a chi cerca quel pane, agli affamati e assetati delle cose dello spirito: con questo significato Federico Barocci, giunto a Roma dalle Marche, nel 1607 rappresentò, nella chiesa di S. Maria della Minerva, Cristo che istituisce l’Eucaristia per suggellare il dogma della transustanziazione delle specie, questione di accesa contesa dottrinale con i protestanti [fig. 7]. La composizione della scena non presenta le caratteristiche di un ultimo convito, ma quelle di una messa nella quale Cristo è il sacerdote circondato dai fedeli che adorano e si prostrano con riverenza davanti al Cibo del Mistero che mette in comunione tra loro il Signore e gli uomini. Tutti si inchinano, tranne Giuda, che vuole ignorare ed estraniarsi nella sua scelta di tradimento.
Tra gli atti di misericordia quello di visitare gli infermi è forse il più impegnativo, poiché richiede di abbattere la barriera della paura, della contaminazione, del pregiudizio. Nelle vicende del vangelo Gesù si commuove dei mali dell’uomo e opera la guarigione del corpo come segno esteriore di una più intima guarigione dell’anima, segno invisibile ma insito in chi lo vive. I pittori hanno esaltato spesso le opere assistenziali dei santi, al tempo della lebbra come al tempo della peste: solo nel territorio di Roma, quasi negli stessi anni, le compiono san Gaetano da Thiene, san Filippo Neri e sant’Ignazio di Loyola, san Luigi Gonzaga, san Stanislao Kostka, san Camillo De Lellis. Qualcuno morì contagiato, giovanissimo; chi sopravvisse si occupò anche di educazione e istruzione gratuita, di musica e di canto da oratorio, e di cura ospedaliera, lasciando ai posteri una grande eredità di impegno umanitario. La cura degli infermi ha molti aspetti: durante la piena del Tevere del 1598, san Camillo mise in salvo i malati della corsia ospedaliera del S. Spirito completamente allagata dalla piena  [fig. 8]. Centocinquanta anni dopo, in occasione dei restauri indetti da papa Benedetto XIV Lambertini, il pittore P. Subleyras interpretava il fatto secondo le più moderne correnti storicistico-illuministiche, dando risalto all’episodio di cronaca, lasciandosi alle spalle i pietismi e le agitazioni barocche post controriformistiche, presentando il santo come una figura eroica che, simile a un novello Enea, nel momento del pericolo si caricava del peso del bisognoso e lo portava in salvo.
L’ultimo servizio di amore e di assistenza provvidenziale al prossimo si tributa a ciò che resta della persona: seppellire i morti. Francesco Barbieri, noto come il Guercino, viene incaricato nel 1621 da papa Gregorio XV Ludovisi di raffigurare la rara descrizione del Seppellimento di santa Petronilla  , tradizionalmente figlia di san Pietro: i fossori la calano nel sepolcro, mentre contemporaneamente in Cielo si celebra la sua santificazione. Il Guercino, capace di un disegno accurato alla bolognese, di foschi chiaroscuri, fine interprete di un repertorio agiografico ricchissimo e carico di sfumature dottrinali, frequentatore dei sacramenti, come ci racconta il suo biografo Malvasia , raffigura la relazione che intercorre tra la pratica misericordiosa del seppellire le spoglie mortali e il distacco dell’anima che, una volta lasciato il prezioso corporeo involucro, si ritrova in tutta umiltà al cospetto di Cristo, giudice misericordioso e accogliente amico  [fig. 9].                               

Fig.1 Fig. 1 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Fig. 2

 Fig. 3

 Fig.4

 Fig. 5

 Fig.6

 Fig. 7

 Fig. 8

 Fig. 9

 

 

 

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