Cerca
News

04/03/2020: ++AVVISO: SOSPENSIONE DI TUTTI I CORSI++
I corsi organizzati dall’Ufficio liturgico (liturgia per la pastorale, presso l’ateneo s. Anselmo; ...>>


16/12/2019: Corso di formazione per lettori
L’Ufficio Liturgico, organizza 2 corsi di formazione per lettori, fatto da 6 incontri ciascuno. Il ...>>



Archivio News

Contatti

VICARIATO DI ROMA

Ufficio Liturgico


Piazza San Giovanni in Laterano
00184 Roma

Tel. 06 698 86 214 / 233


ufficioliturgico@vicariatusurbis.org

Visita il sito del

Vicariato di Roma

Newsletter Culmine e Fonte n. 2/2017 - Articoli

Newsletter Culmine e Fonte n. 2/2017

Sommario:

 

COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DELLA LITURGIA DOMENICALE

(I testi, quasi tutti redatti da sacerdoti della Diocesi di Roma, sono tratti dal sito www.omelie.org, che ringraziamo per averci concesso di riprodurle e al quale rimandiamo per altro materiale formativo).


1 Marzo 2017
Mercoledì delle Ceneri - A
(commento di don Gianmario Pagano)


Colletta
Il soggetto del cammino di conversione che si sta per cominciare non è un individuo o un insieme di individui, ma un “popolo”. La Quaresima vede protagonista tutta la Chiesa, perciò non si può ridurre questo tempo liturgico a un modo più intenso di vivere la fede privatamente. Ma c’è dell’altro. Il tempo che comincia vuole produrre un movimento che coinvolga i fedeli in modo tanto straordinario quanto intenso e decisivo, analogo a quello che si riscontra nei momenti di mobilitazione generale: tutti i fedeli devono acquistare la consapevolezza di essere chiamati a un combattimento. E quando un popolo intero viene chiamato al combattimento, si tratta di una guerra. I termini stessi usati nel testo – l’invito ad es. a “prendere le armi” – sono termini bellici. Bisogna infatti riconoscere che la guerra del bene contro il male, nonostante le interpretazioni nefaste dei fondamentalismi, è una costante simbolica nelle religioni, soprattutto quelle basate sulla fede del Dio di Abramo. La preghiera stessa della Chiesa non disdegna di utilizzare tale simbolo collocandolo all’inizio della Quaresima. Ma quello che sfugge purtroppo ai fondamentalismi è che al centro dell’uso del simbolo della guerra non c’è l’invito alla sopraffazione e alla violenza, ma quello al coraggio e alla messa in gioco, alla disposizione a intraprendere una lotta che fa appello a tutte le energie della volontà, esattamente come richiesto nei momenti più bui, in cui un popolo intero viene chiamato a spendere ogni energia per affrontare la propria sopravvivenza. In questa guerra sui generis le armi sono speciali – quelle della “penitenza” –, così come speciale è il nemico: “lo spirito del male”. Se l’uomo combattesse davvero questa guerra spirituale, mobilitando per essa tutte le sue forze, non sarebbe costretto, certamente, a combatterne altre…

Prima lettura Gioele 2,12-18
La pagina del profeta Gioele è forse quella tematicamente più associata al clima introdotto dalla preghiera di colletta. Il contesto di questo famoso passo è infatti una calamità terribile: la siccità, accompagnata dal flagello delle cavallette, paragonata a un esercito feroce che prende d’assalto ed espugna una città (Cfr. 2,1-11). Proprio dalla catastrofe nasce l’appello al cambiamento interiore, che è nei termini e nei toni, una forma di appello alla mobilitazione generale, ma per uno scopo preciso: implorare la misericordia di Dio e invocare il suo aiuto con una giornata straordinaria di digiuno e di penitenza. Segue la risposta di Dio e l’annuncio della liberazione insieme a future benedizioni (2,19-27). Da notare anche un altro particolare, più generale: il profeta Gioele è quello che ha ispirato molte pagine “apocalittiche” del Nuovo Testamento (il discorso escatologico nei sinottici e alcuni passaggi dell’Apocalisse), proprio per il suo richiamo profetico al “giorno del Signore”, come giorno terribile, al cui confronto la piaga delle cavallette e della siccità è uno scherzo. Tuttavia per Gioele la catastrofe del presente non è il presagio di un castigo maggiore, piuttosto è il segno che anticipa un’era di salvezza. Il punto essenziale è che tale salvezza futura non è incondizionata, ma esige una conversione interiore e profonda di tutto il popolo. 

Seconda lettura 2Cor 5,20 – 6,2
Questo passaggio di Paolo è una sintesi sublime del messaggio cristiano e, nello stesso tempo, della missione della Chiesa: essere “ambasciatori” della riconciliazione tra Dio e gli uomini. Non si finirà mai di meditarlo e di amarlo abbastanza. L’invito pressante a “non accogliere invano la grazia di Dio” è il punto fondamentale delle preoccupazioni dell’apostolo, e dovrebbe probabilmente essere l’anima di ogni azione ecclesiale, a cominciare da quella contemplativa. Nel contesto dell’inizio della Quaresima il riferimento al “tempo favorevole” diventa strumentale, quasi ovvio. Tuttavia non bisognerebbe cessare di leggerlo in un contesto più ampio e incisivo, che riguarda l’interpretazione di tutta l’esistenza cristiana: la salvezza è un’occasione da prendere al volo, senza esitare, senza rimandare. Come nella parabola del tesoro nascosto, lo scopritore si trova davanti al colpo di fortuna della sua vita, davanti a una situazione tanto felice quanto irripetibile. Il segreto per possedere il tesoro non sta nel trovarlo, ma nella prontezza e nella totalità della risposta: nascondere la scoperta per correre immediatamente a vendere tutto per acquistare il campo. Una prontezza che nella parabola è così enfatizzata, da sfiorare il cinismo: lo scopritore del tesoro mantiene il segreto per non rischiare di perderlo e per acquistarlo solo a prezzo del campo! Paolo invita di fatto i suoi uditori allo stesso atteggiamento, decisivo per accogliere in modo efficace la grazia che può trasformare effettivamente la vita di ciascuno. 

Vangelo Mt 6,1-6.16-18
Il testo non è riportato nella sua continuità, ma è una piccola selezione, operata con criterio tematico, sulla base del grande discorso “programmatico” di Gesù nel vangelo di Matteo. La pratica delle opere buone e dell’elemosina, la preghiera e il digiuno, essendo i punti fondamentali della “pratica religiosa” diventano oggetto di riflessione specifica all’inizio della Quaresima per tutta la Chiesa. Anche in questo caso però non bisogna dimenticarne il contesto: Gesù non sta parlando a fedeli che cominciano la Quaresima – almeno non nel contesto originale del passo evangelico… – ma sta insegnando ai suoi discepoli quali devono essere i loro atteggiamenti essenziali. Se c’è infatti una novità e una diversità nella pratica pia dei discepoli di Gesù, questa non è nei contenuti fattuali, che sono i medesimi della tradizione ebraica (e in pratica, come è noto, sono stati ripresi in toto anche dalla tradizione islamica), ma, potremmo dire, nello stile con cui tali contenuti sono proposti alla pratica, nel senso ultimo che essi acquistano alla luce più ampia del vangelo.
Ma la cosa che più stupisce il lettore attento è che il vangelo sembra rinunciare all’aspetto sociale e collettivo della penitenza e delle pratiche di pietà, che erano così importanti p.es. per il profeta Gioele, in funzione della loro sincerità e interiorità. Nello stesso tempo, non dovrebbe sfuggire un’altra apparente contraddizione con Mt 5,13-36, altro famosissimo passaggio dello stesso discorso: “risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria…”. Insomma, le “opere” dei discepoli di Gesù devono rimanere nascoste o devono essere viste? Devono essere pubbliche o private? Per sciogliere questo nodo bisogna fare riferimento al tipo di opere cui si fa riferimento nei due diversi contesti. In Mt 5, 13ss. il riferimento è alla radice stessa dell’identità cristiana, che consiste nel compiere le opere di Dio: in altre parole, nel mettere in pratica il Vangelo. Se il Vangelo non viene praticato dal discepolo, egli rinuncia radicalmente alla sua identità, con conseguenze tragiche per lui. Nei due passi di Mt 6 ripresi dalla liturgia si parla piuttosto delle tipiche opere di penitenza, cioè di quelle che si fanno in riparazione dei peccati o per implorare la misericordia di Dio. Ebbene, il Vangelo non solo dice che se queste opere sono falsate da vanità e vanagloria, esse sono inefficaci, se non addirittura controproducenti (“avete già ricevuto la vostra ricompensa…”), ma che il termine di ogni opera di Dio è Dio stesso. Il ritorno a lui deve essere totale, innanzitutto interiore, determinato da un profondo atteggiamento dello spirito che si orienta a Dio mettendo in gioco la totalità della propria esistenza. La dimensione sociale e visibile della pratica religiosa non è disprezzato, ma la condizione necessaria che la presuppone risiede nello spirito di ciascuno, nel segreto della coscienza, dove si gioca il vero valore delle scelte umane al cospetto di Dio.

Visione d’insieme
Il mercoledì delle Ceneri non è solo un invito, ripetuto ciclicamente, a cominciare un cammino di conversione. È un invito a cogliere l’occasione di compiere per davvero questo cammino una volta per tutte. Tale appello ha una dimensione sia pubblica, comunitaria ed ecclesiale, sia privata, personale, interiore e mistica. I due aspetti vanno abbracciati entrambi dai discepoli di Gesù, senza dimenticare che è innanzitutto la profondità dell’adesione di ciascuno al Vangelo a produrre per conseguenza l’opera quasi miracolosa di un cambiamento, questo sì visibile ed evidente, della propria vita.
Se la preghiera di colletta richiama i cristiani come in un appello di leva, il profeta Gioele ricorda la gravità della posta in gioco e Paolo sottolinea l’importanza di cogliere il momento propizio per ottenerla. Infine il Vangelo ci chiede di fare tutto ciò con cuore puro, perché l’onestà profonda di fare le cose solo ed esclusivamente per Dio ci restituisce la potenza della sua azione in noi, e ci assicura, dunque, la vittoria finale. Solo in tal modo tutti i credenti potranno dire: “la grazia di Dio in me non è stata vana”.

5 Marzo 2017
I Domenica di Quaresima - A
(commento di mons. Remo Bonola)

Introduzione.
La Chiesa all’inizio del cammino quaresimale mette davanti a ciascuno di noi due scenari contrapposti: il paradiso e il deserto.
Nel primo, per mezzo del fattore “T”, cioè la tentazione intesa come “prova”, si consuma il primo peccato della storia (= il peccato originale); nel secondo invece ci viene data la possibilità di orientare qualunque “prova” della vita verso il bene.
Due scenari contrapposti dunque: il paradiso e il deserto:
1)   Nel primo, protagonista perdente ma indiscusso è l’uomo, suggestionato dal demonio.
2)   Nel secondo, protagonista assoluto e vincente è Cristo Gesù Figlio di Dio.
3)   Il feeling, che accomuna entrambi: l’uomo e Cristo, è il “fattore T” o tentazione intesa come prova.
Dalla tentazione, a cui ciascuno di noi è facilmente esposto, dipende la nostra progressiva crescita nel bene o nel male.
Per questo alla luce dell’odierna Parola di Dio, sono d’obbligo alcune importanti considerazioni sul “fattore T” cioè sulla tentazione intesa come “prova”.
A) Che cos’è in pratica la tentazione?
Risposta. È ogni sollecitazione della volontà, quindi della nostra libertà interiore a compiere:
1)   un atto di virtù: in tal caso la tentazione ci orienta o ci rafforza nel bene;
2)   oppure un atto contrario alla virtù: in tal caso la tentazione ci istiga o ci consolida nel male.
È chiaro che il soggetto principale della tentazione è sempre l’uomo in quanto tale, cioè come essere libero e razionale; mentre fattori concomitanti:
a)   nel bene: Dio, la Madonna, i Santi, le persone oneste ecc.
b) nel male: il demonio, le nostre passioni interne (= vizi capitali), persone e circostanze equivoche ecc.
Inoltre c’è da tener presente che, tanto nella lingua ebraica, quanto in quella greca (periasmόs) il termine che traduciamo con tentazione evidenzia il carattere specifico di “prova da sostenere”.
Perciò possiamo dire che:
a)   Prima del peccato originale, la tentazione, intesa come prova, l’ha permessa Dio all’uomo perché questi potesse “in piena libertà” crescere nella fedeltà, amicizia e comunione con Dio.
b) Dopo il peccato originale, la tentazione, sempre intesa come prova, resta soggetta alle forti suggestioni interne delle passioni e a quelle esterne del maligno e  del mondo circostante, che cercano di deviarla verso il male, piuttosto che verso il bene.
c)   Con la venuta del Messia, promesso nella persona di Gesù Figlio di Dio, la tentazione rimane, ma con la differenza che siamo messi in grado di superarla facilmente, anzi addirittura di farne uno strumento di crescita spirituale e di fedeltà a Dio.
Stando così le cose, possiamo dire allora che, dopo il peccato originale, la tentazione essenzialmente è una prova che si risolve:
a)   nel bene, se riusciamo a seguire le vie di Dio e non quelle del mondo e dei nostri capricci;
b) nel male, qualora invece ci lasciassimo accalappiare dagli impulsi delle nostre passioni e dai trabocchetti del maligno.
Riflessione. Che dire dunque di questa problematica realtà che è la tentazione nella trama della nostra vita quotidiana?
Lasciamo la parola all’autorevole testimonianza del Papa emerito Benedetto XVI, che commentando il Vangelo di oggi scriveva: «La natura della tentazione è quella di rimuovere Dio, che, di fronte a tutto ciò che nella nostra vita appare più urgente, sembra secondario, anzi addirittura superfluo e fastidioso. Di qui nasce la malizia intrinseca ad ogni tentazione: quella di mettere ordine da soli nel mondo, senza Dio, contando solo sulle proprie forze e capacità (cfr. Il mito di Icaro). Ne consegue che si riconoscono vere e utili solo le cose reali (il pane, il potere, il piacere, l’avere ecc.), mentre Dio è inutile, perché considerato un’illusione».
Alla luce di questa considerazione possiamo capire che, se nella tentazione il diavolo ci fa apparire Dio come illusorio o superfluo, è chiaro allora come l’uomo d’oggi possa fare a meno di Lui e cerchi di dedicarsi e di puntare nella vita di ogni giorno solo a ciò che è reale e immediato.

B)   Qual è la prospettiva della tentazione?
Risposta. La stessa che il maligno fece balenare ai nostri progenitori, quando disse loro: «Dio sa che, quando voi ne mangiaste (dell’albero) si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» (prima lettura).
Ecco dunque la prospettiva di ogni tentazione: quella del segmento che pensa di poter fare a meno della retta, cioè quella dell’uomo che crede di piegare la volontà infinita di Dio alla sua debole e limitata volontà umana. Cosa veramente ridicola e assurda!

C)   Quale la dinamica della tentazione?
Risposta. La medesima che ci viene descritta sempre nella prima lettura con rara perizia psicologica:
«La donna vide che l’albero (cioè la prospettiva di diventare una first lady, una fuoriclasse) era:
1)   buono da mangiare (tale da azionare la leva del “piacere”)
2)   gradito agli occhi (tale da azionare la leva dell’ “avere”)
3)   desiderabile per acquistare saggezza (tale da azionare la leva del “potere”)
prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito…» (prima lettura).
Riflessione.  Una dinamica perfetta questa, capace di scatenare la triplice concupiscenza scaturita dal peccato originale e che san Giovanni denuncia in questi termini: «Tutto quello che è nel mondo: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo e il mondo passa con la sua concupiscenza» (1 Gv 2,16-17).
La stessa triplice concupiscenza che nello scenario del deserto Gesù decisamente ha respinto e sconfitto per noi nella terna di tentazioni a cui ha voluto sottoporsi liberamente per insegnare a noi come si affrontano senza paura, ma anzi con frutto, tutte le tentazioni possibili, altrimenti – come ha detto qualcuno - «Tutto è tentazione per chi la teme». (La Bruyere, I caratteri).

D) Quali le conseguenze della tentazione?
Risposta. La conseguenza madre dalla quale scaturiscono tutte le altre, è quella dell’uomo che, dopo il suo peccato di origine si rende conto di essere “nudo” cioè:
1)   Metafisicamente limitato e quindi soggetto a qualunque debolezza fisica, morale, spirituale, culturale e sociale;
2)   Teologicamente tagliato fuori dall’amicizia e dalla comunione con Dio, dal momento, che, a tentazione consumata nel male, nel suo cuore esplodono (cfr. Mc 7,20-23):
a)   discordia e divisione (vedi la frantumazione in atto nei rapporti familiari e di coppia),
b)   odio, autentica miccia capace di suscitare guerre, delitti, violenze, sopraffazioni senza fine, come la storia purtroppo dimostra.
Conclusione. Dinanzi a questo stato di cose, che cosa fare? A noi credenti non resta che prendere atto della pericolosità della tentazione, ma non per deprimerci, bensì per combatterla, come il Signore più volte nel Vangelo ci suggerisce, mediante la vigilanza, la preghiera e la penitenza: strumenti squisitamente quaresimali. E, se questo non bastasse, san Paolo ci ricorda che mai nessuno è tentato al di sopra delle sue forze, e per di più, come l’Apostolo, ognuno di noi può sempre dire: «Tutto posso in Colui che mi dà forza» (Fil 4, 13).

 


12 Marzo 2017
Seconda Domenica di Quaresima - A
(commento di mons. Andrea Lonardo)


Nell’arte cristiana medioevale – ma anche rinascimentale – non mancano mai Adamo ed Eva e il peccato d’origine, da un lato, e Gesù Cristo, dall’altro. Nella Cappella Sistina è evidente che il giudizio, fatto di giustizia e di misericordia, è nelle mani del Figlio (parete di fondo del Giudizio Universale di Michelangelo), ma l’origine che segna la storia umana, l’origine fatta di creazione e caduta, è affrescata, sempre da Michelangelo – alcuni decenni prima del Giudizio – nella volta della Cappella. La domenica scorsa, I di Quaresima, la liturgia della Chiesa ci ha mostrato il dubbio che il serpente antico vuole insinuare su Dio. L’antico tentatore sa che Dio esiste, ma vuole che l’uomo creda che di Dio non ci si può fidare - «Tu credi in un Dio solo? Fai bene: anche i demoni lo credono e tremano» (Gc 2, 19). Non sarà che Dio è il nemico dell’uomo? Non sarà che è per un secondo fine nascosto che Dio si rivolge all’uomo? Non vuole forse anche Dio – come spesso fanno gli uomini fra di loro – servirsi dell’uomo come di una pedina, usarlo, non permettendogli di diventare come lui? Ma, nella risposta alle tentazioni, alla prova della vita, Gesù, condotto dallo Spirito e insieme tentato dal diavolo, non mette in dubbio il suo essere Figlio di Dio, il suo essere “il Figlio di Dio”. Ripetuta è l’ipotesi del demonio – la stessa del serpente – “Se sei Figlio di Dio”, cioè: “Ma sei proprio sicuro di essere Figlio, sei proprio sicuro che il Padre ti ami, che la volontà del Padre sia il bene?”
La prova, affrontata e vinta da Gesù nel deserto, ha tre aspetti, ma una sola verità di fondo: sa di essere il Figlio, sa che il Padre è la roccia, la difesa, la bontà. Sa che il Padre è il Padre e nessuno è più grande di lui, più buono di lui, più sapiente di lui.

Il vangelo della Trasfigurazione è la stessa verità, vista con gli occhi del Padre. “Questi è il mio Figlio prediletto”. È veramente lui il Figlio che amo, non ho altri che lui. Veramente sono il Padre suo, «Io e lui siamo una cosa sola».

Come sottolineava un decennio fa una bellissima meditazione di don Umberto Neri sulla Trasfigurazione, Cristo è la “Luce”. Essendo il Figlio, generato dall’eternità, essendo Dio, essendo “luce da luce”, egli non è un “illuminato”, non è uno che riceve luce come la luna brilla dello splendore del sole, come una luce riflessa. «Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce». È la manifestazione dell’identità divina del Figlio. Ma è l’identità divina portata nella sua “carne”, nel suo volto, nelle sue vesti, nella sua storia. Egli è, infatti, anche «il Figlio dell’Uomo che deve risorgere dai morti» e morire pertanto in precedenza.

L’uomo è come strappato da sé, dinanzi a questo. È strappato da sé dinanzi all’alterità di Cristo. È strappato da sé per ascoltare il comando: «Ascoltatelo». È nella conoscenza e nell’amore della storia del Cristo che l’uomo potrà finalmente “essere come Dio”, scoprire quella figliolanza che il Padre anche per lui ha pensato. E’ lì e solo lì che l’uomo potrà trovare se stesso. Come il Cristo tentato nel deserto, l’uomo potrà scoprire che ciò di cui, in apparenza, potrebbe dubitare maggiormente, l’essere figlio, è in realtà la verità più salda e importante che vive.

Un autore moderno ha descritto, semplificando al massimo, ma con vera acutezza, il cammino dell’uomo dinanzi a Dio individuando tre tappe. Ha descritto queste tre tappe come se fossero tre preghiere. All’inizio: “Sia fatta la mia volontà”. Poi: “Sia fatta la mia volontà con l’aiuto di Dio”. Infine: “Padre, sia fatta la tua volontà”.
La prima espressione – “Sia fatta la mia volontà” – caratterizza la religiosità infantile. Il bambino ha bisogno, per crescere in sicurezza, di sentirsi il centro del mondo, anzi l’unico centro attivo e pulsante dell’universo. Egli è il più bello, anzi l’unico – la sua paura è proprio di non essere “unico”, esposto com’è alla debolezza della sua condizione infantile. Il suo atteggiamento verso la vita è veramente l’impellente e sempre emergente bisogno che ogni suo problema sia risolto, ogni suo pallino esaudito, ogni sua fame immediatamente saziata. Non sa interporre tempo fra il sorgere del bisogno e l’esaudimento. Piange, finché non sia fatta la sua stessa propria volontà.
Il crescere e la grande cura del tempo dovrebbero insegnargli, se riceve e accoglie una vera educazione, che non è in grado di realizzare la sua volontà. Che ha bisogno di un altro perché il suo bisogno sia saziato. Ha bisogno della madre, che crescendo percepisce sempre più come diversa da sé, ha bisogno del padre, degli amici, degli altri. Infine ha bisogno di Dio. Nella prova della vita, non può darsi da sé né salute, né immortalità. Senza l’aiuto di Colui che è più grande non può realizzare i suoi progetti. È un grande passo in avanti nella comprensione di chi è veramente e nella scoperta della sua debolezza, ma insieme nella fiducia che comincia a nascere verso il Signore. Ma ancora, a questo livello, è il suo progetto a essere centrale. Non capirebbe parole come il comando e invito «Ascoltate il mio Figlio Gesù». Molti uomini credenti sono, a volte, fermi a questo stadio. Pregano continuamente, ma la loro preghiera è sempre e solo un parlare, un chiedere. Non che non abbiano una fede in Dio, ma la loro fede è ancora quella di un infante che ha scoperto la sua propria realtà di essere incapace a realizzare da solo alcunché. Può addirittura capitare che tali persone pretendano che ognuno si comporti come loro, preghi come loro, con la stessa insistenza e ripetizione. Non hanno però mai detto, veramente: «Sia fatta la tua volontà». Questa preghiera, che sola è la preghiera matura, nasce non da noi, ma da Cristo stesso. È solo il Figlio che non dubita del Padre, che conosce l’amore del Padre, che sa che il comando del Padre, per quanto esigente, è il sommo bene, la somma gioia, la somma pienezza che può insegnare all’uomo la preghiera del Padre nostro: «Sia fatta la tua volontà».
Ecco che non esiste allora realtà più chiara ed evidente della parola del Padre: «Ascoltatelo». La preghiera non è più solo intercessione, invocazione, ma si fa silenzio di chi riconosce che la volontà del Padre è l’unica realtà da cercare, l’unica realtà di cui non dubitare, quando, invece, ogni progetto dell’uomo è destinato, presto o tardi, a naufragare. La preghiera diviene allora amore al Vangelo, diviene silenziosa ricerca del senso delle Scritture, diviene vero affidamento delle proprie scelte a Dio.

Tale è anche il senso più profondo dell’essere Abramo «nostro padre nella fede». Nella prima lettura, dal libro della Genesi, incontriamo la sua disponibilità assoluta alla chiamata di Dio. Certo, come dicono i versetti precedenti, egli sta già andando verso la terra di Israele. Ma la chiamata di Dio non indica una meta. Il paese sarà indicato dopo. La fede non è obbedienza a Dio, a condizione che prima Dio chiarisca le sue intenzioni e l’uomo dia il suo assenso, dopo aver riflettuto se il progetto di Dio merita di essere seguito. La fede è obbedienza a Dio stesso, prima che Dio indichi la sua volontà. È la disponibilità dell’uomo che, prima di decidere e non dopo aver deciso il cammino da percorrere, intreccia la ricerca di questo cammino con la Parola di Dio. Ci sembra, a questo proposito, che anche il tema vocazionale vada così proposto. Ogni cristiano è chiamato a dare a Dio la disponibilità a una consacrazione particolare. È chiamato a dare questa disponibilità anche se Dio forse non la accoglierà. Solo sulla base di una vera e totale disponibilità Dio può poi chiamare concretamente. Ma non esiste fede che precluda a Dio la possibilità di fare della nostra vita secondo la sua volontà. Questa obbedienza non è tuttavia cieca. Ma non nel senso di un previo controllo di ciò che Dio ci chiederà. Piuttosto nella luce della Trasfigurazione che sa che la proposta di Dio sarà infinitamente migliore di ciò che la nostra mente può concepire, perché nascerà dal suo infinito amore di Padre. Anche il salire sul monte di Abramo, con il figlio Isacco, avviene nella certezza che Dio salverà il figlio. «Ecco il fuoco e la legna, ma dov’è la vittima per l’olocausto?» domanderà Isacco. E Abramo, non mentendo, ma certo per la fede nella bontà del suo Signore, risponderà: «Il Signore provvederà la vittima». Egli non sa ancora come sarà salvata la vita del figlio e da dove e quando Dio darà la vittima, ma la fede ha dato a lui la certezza che «io e il ragazzo andremo lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi».

Questa disponibilità totale è la realtà che sostiene la nostra disponibilità ad ascoltare Dio durante la Quaresima, nella certezza che ogni passo che ci chiederà sarà nuova occasione di crescita di comunione con Lui e con i nostri fratelli.


19 Marzo 2017
Terza Domenica di Quaresima – A
(commento di don Daniele Salera)

1. Un brano come quello dell’odierno Vangelo si può definire inesauribile. Si può affrontarlo da qualunque versetto. Ci racconta un incontro che meravigliò anche gli apostoli che, dopo la sorpresa di vederlo parlare da solo con una donna, non si trattennero dal chiedergli: “Che cerchi? Perché parli con lei?”. Ma il Signore era come assorto in un’altra prospettiva che loro non potevano capire. Lo sperimentarono subito quando, colpiti dal suo stato d’animo, lo invitarono a mangiare qualcosa: «Rabbi, mangia». La risposta li confuse ancora di più: “Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete”. Allora si dissero fra loro: “Che qualcuno non gli abbia portato già da mangiare?”.
2. Gesù, che vede il loro smarrimento, continua nella sua azione pedagogica: “Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e portare a compimento la sua opera”. Difficilmente poterono capire che la sua opera era quella di dissetare, senza fine, anime come quelle della povera samaritana. A questa opera chiamava anche loro, che pure non  avrebbero potuto vantare alcun merito, perché solo il Cristo è “l’acqua zampillante per la vita eterna”. Lo ricorda ai suoi, ancora più esterrefatti: “Altro è il seminatore e altro è il mietitore. Io vi ho mandato a mietere ciò che non avete lavorato; altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel frutto del loro lavoro”.
3. Gli apostoli non hanno quasi il tempo di approfondire le espressioni del Maestro, avranno poi modo di farlo, perché in quel frangente sono già sovrastati dal fruttificare delle parole rivolte alla samaritana. Molti di quella città accorrono per incontrarlo e lo pregano di restare con loro. Credono in lui e, lo sottolineano, per la sua parola, non per quello che aveva detto la donna che pure, forse inconsapevolmente, era stata il tramite per portarli a Lui. Chi poteva credere a una donna così! Aveva avuto vari mariti, ora viveva con uno che non era suo marito e, poi, era una samaritana… quale giudeo avrebbe parlato con una samaritana? Eppure il Signore si serve di lei per richiamare i samaritani. 
4. La donna, ci racconta l’evangelista, andò subito ad annunciare di aver incontrato il Messia. Era sicuramente in pace con se stessa. Come rigenerata. È quanto ci ricorda san Paolo nell’odierna lettura: “noi siamo in pace con Dio grazie al Signore nostro, Gesù Cristo”, perché è da Lui che viene la speranza di partecipare alla gloria di Dio e questa è “una speranza che non delude” e che penetra nei nostri cuori per dare un senso alla nostra vita, come avvenne per quella donna al pozzo.
5. Paolo ci spiega il mistero di quel cibo. Il mistero di chi dà la vita, non per gli amici e già “a mala pena uno affronterebbe la morte per un giusto” o per un amico, ma la dà per chi lo ignora o lo offende. È così che Dio mostra di amarci: “è morto per noi quando si era ancora peccatori”. Ci ridona la vita sapendo che saremmo, comunque, incapaci di riacquistarla da noi: Ecco l’acqua eternamente zampillante che sorprese la samaritana e i suoi concittadini.



Il cammino quaresimale ci invita a riflettere sulla grazia e l’impegno del battesimo e al contempo intraprendere la via penitenziale per combattere il male di cui siamo diventati complici. I vangeli dell’anno A, sono stati scelti proprio per aiutarci a riscoprire il tratto della somiglianza perduta con il Dio Uno e Trino e che il battesimo ci offre come promessa. A partire da questa terza domenica il ricordo del battesimo prende corpo e sostanza nelle liturgie domenicali ed accompagna così non solo il cammino dei catecumeni ma anche il nostro; il dialogo fra Gesù e la samaritana infatti è occasione per puntualizzare alcuni aspetti relativi alla nascita dell’uomo nuovo e alla nostra identità di figli, entriamoci seguendo strade diverse:
1. L’uomo nuovo nasce da una conversione sul piano della fede. I cinque mariti della samaritana rappresentano i cinque popoli insediati forzatamente in Samaria dal re di Assiria di cui si parla in 2 Re 17,24-41 e la cui fede era frutto di un sincretismo fra il Dio d’Israele e il culto di altri dèi. Ora il cammino di purificazione che Gesù propone alla samaritana riguarda anche la fede e il culto. Quello della samaritana è un culto che non tocca la vita e non caratterizza l’esistenza, ella non conosce il vero Dio, il Dio che sfama la sete di senso dell’uomo; tale conversione passa attraverso un processo di purificazione delle false immagini di Dio e di unificazione della relazione: non servire più dèi diversi ma un solo Dio che entra nella storia ed è reale (tanto reale che ora è accanto alla donna). Spesso questo processo di purificazione e unificazione delle immagini di Dio passa attraverso quelle immagini che di Lui ci siamo fatti fin dall’infanzia, magari anche grazie a incontri o relazioni che a Dio si riferivano ma certo non al Dio di Gesù Cristo (Dio fatto carne). Nella nostra epoca tale rischio è ancora più forte poiché se in passato le false immagini di Dio venivano comunque “arginate” da una vita di fede maggiormente strutturata e definita anche culturalmente, l’attuale società “liquida” e indifferenziata non permetterebbe tale processo di contenimento ma anzi favorirebbe la dispersione, il relativo  e dunque il molteplice anche rispetto al concetto di Dio e all’immagine che di Lui ci si può fare. Ciò richiede che la fede sia maggiormente interiorizzata oltre che oggettivata dall’appartenenza ecclesiale. Può accadere che si pensi di risolvere il problema della conversione della nostra idea di Dio a partire dall’adesione a quelle verità della fede che la Chiesa ci offre nel suo Magistero. Non è più così (almeno in modo univoco). Spesso la conversione religiosa richiede anche un processo di liberazione dal falso al vero Io: «Se vuoi conoscere Dio, conosci prima te stesso», sentenziava Evagrio Pontico (†399), padre di una delle più feconde correnti della spiritualità bizantina e diversi secoli dopo di lui Guglielmo di Saint-Thierry (†1148) affermava «conosci te stesso perché sei la mia immagine, e così conoscerai me, di cui sei l’immagine. In te stesso troverai me». Cosa questo significhi e cosa esso comporti le vedremo di seguito. 
2. L’uomo nuovo nasce nella relazione con l’Altro. Il pittore Sieger Köder ha rappresentato il nostro Vangelo con efficace semplicità: la samaritana si sporge dal bordo del pozzo da sola, ma lo specchio d’acqua in fondo al medesimo riflette non solo il volto della donna ma anche quello di Cristo (il titolo dell’opera è Insight – discernimento, comprensione). Köder sembra quasi suggerirci che l’itinerario di conversione della donna non è solo dai falsi dèi al vero Dio, ma anche dal falso al vero io. L’uomo di oggi intraprende percorsi di conoscenza di sé spesso accidentati e comunque troppo caratterizzati da una psicologia “fai da te”, la nostra fede - fin dall’epoca patristica - ci invita piuttosto a conoscerci/riconoscerci nel Dio a immagine di cui siamo stati creati. Il credente in Cristo è cioè colui che impara a conoscersi nella relazione con Lui, un po’ come Köder ha voluto rappresentare nel dipinto: la donna si vede sola ma in realtà è con Gesù, e attraverso di Lui si conoscerà veramente, passando da un immagine di sé distorta e frammentata al vedersi vera e libera (tanto vera e libera da non potersi tener dentro una tale scoperta). Noi “emergiamo” grazie alla relazione con la Trinità e questo si realizza a partire dall’emersione del battesimo ma ha bisogno di ogni giorno della vita per realizzarsi. Non possiamo conoscerci o sperare di essere veri se non a partire da questa relazione che si realizza secondo ciò che il Signore attraverso la Chiesa quotidianamente continua a offrirci: anzitutto lo Spirito – e uno dei suoi simboli biblici è proprio quell’acqua di cui la samaritana oggi impara ad aver sete –, chiederlo ci rende sempre più figli a immagine del Figlio; poi la Parola: «essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12), permettendo una conoscenza spirituale (per noi credenti veramente essenziale) e favorendo l’unificazione interiore. Aggiungeremmo la preghiera: nella preghiera i nostri sentimenti e pensieri emergono con maggiore evidenza e non solo come spinte all’azione o condizionamenti della volontà, chi vive la grazia della preghiera continua cresce nella verità di sé. Infine il fratello che la Chiesa madre ci pone accanto, egli è specchio in cui si riflette la nostra immagine e spesso è spettatore di ciò che di noi non possiamo osservare; attraverso la pratica della correzione fraterna egli può offrirci un servizio che lo assimila al Signore che rimprovera ed educa tutti quelli che ama (Ap 3,19).


26 Marzo 2017
Quarta Domenica di Quaresima - A
(commento di don Paolo Ricciardi)

L’ultima domenica di marzo è caratterizzata, da tanti anni, dal fatto che si dorme un’ora in meno… Il passaggio all’ora “legale” ci toglie sessanta minuti per restituirceli di nuovo nell’ultima domenica di ottobre. Ci si illude ancora in un risparmio energico concedendo al sole di tramontare un’ora più tardi, anche se tanta gente continua a lavorare, a divertirsi e quindi a sprecare energia anche di notte.
C’è quindi un passaggio dal “sole” alla “legge”, dal “solare” al “legale”.
Forse non è un caso che in questa domenica ascoltiamo proprio il lungo racconto del vangelo del cieco nato, dove luce, buio, legge, peccato, si alternano intorno a un povero uomo che da sempre aveva solo sperimentato le tenebre, il dramma di non vedere.
Immaginiamolo ogni mattina, quando si ritrovava presto a camminare, a tentoni, verso il tempio. Ogni giornata era ormai la stessa, da chissà quanti anni. Per lui il mondo era come lo toccava. Non poteva avere parametri normali. Conosceva una cosa, una persona, un ambiente per la forma che veniva a contatto con le sue mani. Riconosceva gli odori, i profumi, i suoni, i rumori. Ma tutto era nel buio. Nell’oscurità delle tenebre. Il giorno e la notte non potevano essere distinti.
Ma oggi Gesù passando lo vede... All’inizio di un racconto in cui il verbo “vedere” è ricorrente, è bello sapere che il primo a vedere è proprio Gesù. È lui che vede il cieco, lo guarda, lo osserva. Questa volta non è il malato a chiedere di essere guarito. L’iniziativa è tutta di Dio.
In questa domenica “di mezza Quaresima”, domenica della gioia, è Gesù che mi vede.
Provo oggi io a identificarmi nel cieco, sperimentando tante volte il buio del peccato, dello scoraggiamento, del giudizio. “Sei nato tutto nei peccati!” “Non fai che cose sbagliate”. Oggi provo anch’io a sentire la voce di Qualcuno che dice qualcosa di diverso: “è così perché si manifestino in lui le opere di Dio”. Le mani che spalmano fango sugli occhi, nonostante il fastidio umano, sono mani diverse. Oggi, dopo aver incontrato domenica scorsa Gesù al pozzo di Sichar, devo di nuovo fidarmi di lui che mi ri-crea, devo andarmi a lavare in quell’acqua che mi disseta. E… finalmente, vedrò!
Vedrò perché sono visto, con amore, da Colui che non guarda l’apparenza ma che vede il cuore.

Anche i farisei ogni mattina escono per recarsi a pregare, senza difficoltà, senza andare a tentoni. Oggi trovano quel cieco guarito e, privi di umanità – oggi diremmo primi di “solarità”, ma schiavi dell’ora “legale” – si “arrabbiano”. I farisei non riescono a sopportare l’agire di Gesù.
Provo ad identificarmi anche in questi farisei e mi ci ritrovo, purtroppo, in tante occasioni…: credente di nome, ma incapace di farmi smuovere dalla misericordia e dalla gioia che viene dal vangelo. Preferisco, come dice Papa Francesco, essere cristiano “da salotto” o vivere una “quaresima senza Pasqua!”
Da che parte voglio stare oggi? Dalla parte di chi desidera vedere e viene salvato o dalla parte di chi crede già di vedere ma invece è cieco, come i farisei?
I farisei sanno la teologia e la morale e dimenticano la vita; sono i puri che non perdono mai la testa, perché non si commuovono mai. È facile essere credenti senza bontà; è facile anche essere teologi e preti senza bontà: Funzionari delle regole ed analfabeti del cuore; difensori della sana dottrina e indifferenti al dolore. I farisei guardano alla teologia e non vedono l’uomo e il suo miracolo. Ma c’è più vita nel grido di un uomo ferito che in tutti i libri.

Gesù comunque mi viene incontro, anche se sono fariseo, per liberarmi da ogni tenebra e rendermi luce in Lui. Mi incontra per chiedermi di nuovo:
“Tu credi nel Figlio dell’uomo?”. “E chi è, Signore, perché io possa credere in lui?”. “Sono io, che ti parlo”... Non io che tu vedi, ma io che ti parlo. Come il cieco guarito, abituato alle voci e ai rumori, riconosce la Voce, così voglio mettermi in ascolto della Parola e comprendere finalmente lo stesso invito all’ascolto rivolto dal Padre al Tabor: per aprire gli occhi alla Luce bisogna prima aprire le orecchie alla Parola.
Oggi voglio dire di nuovo: “Sì, io credo, Signore!”
E basterebbe poco per lasciare poi che la Luce invada, inondi, sommerga e vivifichi tutto il mio vivere rendendomi capace di verità e di amore. Basterebbe che riconoscessi di essere cieco, povero e peccatore, bisognoso di una salvezza che non posso darmi da solo. E che accettassi il miracolo di qualcuno che mi apre gli occhi perché possa vedere lui e, in lui, tutte le cose.
E vedrò oltre le apparenze, vedrò l’essenziale invisibile agli occhi, seminando occhi nuovi sulla terra. E allora sarà domenica di Gioia!
Il Signore che guarì il cieco nato possa oggi, secondo l’auspicio di san Paolo, “svegliare chi dorme e farci risorgere da morte. Cristo ci illuminerà” (cfr. Ef  5,14).


3 Aprile 2017
Quinta Domenica di Quaresima - A
(commento di p. Gianmarco Paris)

La Quaresima è un cammino, un tempo in cui siamo invitati a tornare all’essenziale, a quello che conta nella nostra vita, e scoprire che ciò che più vale viene dal nostro incontro sempre nuovo con Dio. Mi sembra di poter tradurre così la “conversione”, alla quale ci invita la liturgia della Quaresima. Chi ha incontrato Gesù ha fatto questa esperienza, è stato aiutato ad andare al centro della sua vita. Anche noi ogni anno, preparandoci alla Pasqua, siamo chiamati a riscoprire Dio; questo incontro ci porterà subito a rivedere quello che facciamo con noi stessi e con gli altri. Leggendo con attenzione i Vangeli, vediamo che Gesù incontra la gente per le strade e nelle case. Solo in qualche occasione nelle sinagoghe o nel Tempio, ma anche in questi casi non fa gesti “religiosi”, ma gesti umani, come le guarigioni: e sono tutti incontri che cambiano la vita.
Oggi il Vangelo di Giovanni ci presenta l’incontro di Gesù con le sorelle che piangono il fratello morto e poi l’incontro con Lazzaro che Gesù chiama fuori dalla morte. Lo avevano avvisato che l’amico era malato. Gesù, che si trovava in una regione lontana, non si era messo in cammino subito. Ai discepoli aveva detto che quella malattia non era per la morte, ma per la gloria di Dio: che cosa potevano capire i discepoli da questa frase? Quando arriva a Betania, Gesù non entra subito nel villaggio: le sue sorelle gli vanno incontro, per accoglierlo e per esprimere il loro dolore. Mentre capiamo il  pianto di Marta e Maria e la compassione di Gesù per loro, ascoltiamo anche quello che egli dice a Marta: tuo fratello risusciterà, non solo nell’ultimo giorno, ma in questo giorno. Gesù, dopo essersi presentato come fonte di acqua viva alla Samaritana e come luce per il cieco, ora si presenta come la resurrezione e la vita e promette che chi crede in lui, pur passando per la morte, vivrà. Con la fede di Marta e Maria, una fede ancora fragile ma in cammino, seguiamo Gesù fino al sepolcro; lo sentiamo ringraziare il Padre perché lo ascolta. Poi lo sentiamo gridare verso il morto, ordinandogli di uscire. Ed eccolo, l’amico Lazzaro ritornato alla vita, nato una seconda volta, risuscitato.
Nel vangelo di Giovanni, come nel cammino di quaresima, siamo a una svolta: la risurrezione di Lazzaro è per l’evangelista l’ultimo segno compiuto da Gesù, quello che provoca la decisione della sua morte e anticipa il mistero della sua risurrezione. Nel cammino catecumenale della quaresima, dopo le tentazioni e la trasfigurazione, che manifestano l’umanità obbediente di Gesù e la sua divinità nascosta, dopo la samaritana e il cieco nato, che ci presentano i simboli battesimali dell’acqua e della luce, ecco ora il segno di Lazzaro, che ci presenta Gesù come risurrezione e vita, e ci introduce nella settimana santa. Chi crede in Gesù come Messia, Signore della vita, può attraversare la morte senza rimanerne prigioniero, può accompagnare Gesù nella sua passione, confidando come Lui nella potenza del Padre.
Crediamo nella risurrezione come destino del credente dopo la morte; ma la fede nella risurrezione riguarda anche la vita di ciascuno di noi ora, durante la nostra vita in questo mondo. Le prime due letture della liturgia di oggi ce lo confermano e ce lo spiegano. Ezechiele annuncia la risurrezione del popolo che stava in esilio, paragonando questa situazione alla morte e annunciando il ritorno alla terra della promessa. Paolo, scrivendo ai Romani, ci ricorda che chi vive secondo la carne è come morto, mentre chi vive sotto il potere delle Spirito possiede una fonte di vita che produce i suoi effetti di vita già da ora, portandoci a compiere le opere della luce, dando vita piena al nostro corpo, che è mortale a causa del peccato. Vincendo il peccato Gesù ha vinto la morte e ci ha aperto il cammino per la vita in pienezza, che inizia già in questo mondo e continua in Dio. Il nostro battesimo, che nella notte pasquale rinnoviamo, non è qualcosa di statico, di avvenuto una volta per sempre, ma è camminare ogni giorno in modo nuovo sulla strada che Gesù ci ha aperto, verso la vita piena di Dio.

Culmine e Fonte > Newsletter Culmine e Fonte > CeF 2017 > CeF n. 2/2017 > Articoli n. 2/2017