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Newsletter Culmine e Fonte n. 8/2016 articoli

Newsletter Culmine e Fonte n. 8/2016

Sommario:

 

"Una Parola per noi"

 

a cura di mons. Giuseppe Costa, biblista

 

DOMENICA XXVII DEL TEMPO ORDINARIO
2 Ottobre 2016


Ab 1,2-3; 2,2-4; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10

1. Due versetti del capitolo primo e tre versetti del capitolo secondo sono la sintesi liturgica, proposta nella celebrazione di oggi come prima lettura, di due interventi (l’uno del profeta, che chiede: 1,2-3; l’altro di Dio, che risponde: 2,2-4) che aprono il libro del profeta Abacuc. Molto simile alle confessioni di Geremia (cf. Ger 11,18-12,16), il profeta si lamenta con Dio e chiede spiegazione per le ingiustizie, le violenze e le sofferenze che vede tra il popolo. Un lamento che diventa sempre più accorato, dato che appare emblematico il silenzio di Dio (1,2: «… non ascolti … non soccorri»)! Il profeta, tuttavia, si mette all’ascolto, attende una risposta da Dio. E la risposta non si fa aspettare. Dio interviene e parla. Risponde alla richiesta del profeta, porge l’orecchio alla sua voce! Risponde e incoraggia. Non tutti soccomberanno, non tutti periranno: «… soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede» (2,4)! Israele non deve temere: la parola del Signore è veritiera, non mentisce (2,3), anche se la sua realizzazione al momento sembra lontana. Chi crede fermamente, chi si affida nella fede totalmente al Signore, chi persevererà sino alla fine sarà pienamente salvato.
2. Il brano dell’Apostolo, che la liturgia ci presenta come seconda lettura, apre e chiude una sezione che intende esortare il discepolo Timoteo a lottare coraggiosamente per la predicazione del Vangelo. È una dolce esortazione, fatta di amorevole comunione (v. 6: «… per l’imposizione delle mie mani»; v. 8: «… anche tu insieme con me …»), che tende a rinsaldare i vincoli tra Paolo e Timoteo e che mette in evidenza il dono potente della forza di Dio (v. 8). Timoteo, infatti, deve prendere coraggio dalla sua stessa fede, dalla grazia della sua ordinazione e dal dono dello Spirito. Uno Spirito che si esprime con le qualifiche di fortezza, amore e saggezza. Il credente quindi, come Timoteo, non è solo ad agire dinanzi alle difficoltà e alle angustie del ministero: la forza potente dello Spirito è con lui, lo assiste e lo accompagna. È questa una forza che lo fa uscire da ogni paura e che allontana timori e dubbi: è una carica energetica positiva che lo spinge fuori nell’annuncio e nella missione, elevando al massimo le sue potenzialità e rendendolo perfettamente idoneo a compiere il gravoso ministero della guida della comunità. Il coraggio, che nasce dallo forza dello Spirito, deve spingere Timoteo a essere intrepido nella fede, a non «vergognarsi  della testimonianza» (v. 8a) da dare al Signore, e neppure delle catene dello stesso Paolo (v. 8b). La forza dello Spirito ha rafforzato Timoteo nella fede, gli ha fatto superare ogni forma di rossore dinanzi alle prove, alle angustie, alle tentazioni di scoraggiamento: niente lo potrà fare cedere. Come l’Apostolo, sarà pronto a «soffrire per il vangelo» (v. 8c). Nei vv. 13-14, Paolo richiama il discepolo dinanzi al modello delle sane parole, ricevute da lui stesso e che sono il buon deposito della fede. Si tratta di tutta la predicazione cristiana e apostolica del Vangelo di Gesù Cristo che lo stesso Paolo ha ricevuto e che fedelmente gli ha trasmesso. Timoteo deve attenersi fedelmente alla predicazione del suo maestro ricercando e invocando l’aiuto dello Spirito Santo, che agirà certamente perché già presente in noi (v. 14b).
3. Il brano evangelico si presenta articolato in due momenti. Nel primo (vv. 5-6) Luca, rispondendo a una precisa richiesta degli Apostoli (Aumenta la nostra fede!), presenta un chiaro insegnamento di Gesù. Il Maestro cerca di scuotere i suoi più stretti collaboratori con una immagine (granellino di senapa … gelso) iperbolica e molto ardita (sradicato e trapiantato nel mare …) tratta dal mondo della natura. Nel secondo momento (vv. 7-10), con l’illustrazione parabolica del servo che ritorna dal campo, viene proposto un grande insegnamento sull’umiltà. Non c’è posto per qualsiasi forma di vanto (vv. 7-8) o di pretesa (v. 9-10) per il discepolo che avrà fatto solo il suo dovere! Naturalmente i due momenti sono strettamente legati: da un lato, infatti, vi è il tema della fede in Dio; dall’altro, la presentazione del giusto atteggiamento da tenere nei confronti di Lui. Per Gesù, la fede ha una forza sorprendente: ha la capacità di compiere gesti che sarebbero impensabili per ogni uomo. È una forza che è anche potere. Un potere dirompente che permette al vero credente di compiere anch’egli gesti straordinari. Tuttavia, non è necessario avere una fede grande. È sufficiente avere la fede: anche una fede piccola. Un minimo (granellino) di fiducia in Dio, infatti, basta per operare anche i più grandi prodigi! Tale lo sradicamento di un gelso, ancora di più la crescita di un albero nel mare! La fede ricevuta da Dio non è mai inefficace nell’uomo; anzi, per quanto piccola può apparire, si rivela ricca, produttiva e potente. Realizza l’impossibile non perché proviene dall’uomo, ma perché è forza di Dio nell’uomo che crede. Chiarito il rapporto tra fede e discepolo, è necessario chiarire l’atteggiamento che il discepolo stesso deve assumere nei confronti di Dio: un atteggiamento filiale e umile, al modo del servo inutile. Il programma per il vero discepolo è fortemente realistico e improntato alla gratuità: gli apostoli, i discepoli, i credenti sono commensali al banchetto di Dio, ma servi inutili, totalmente alla dipendenza della sua grazia e del dono di comunione con Lui. Né la loro attività, né la loro osservanza delle regole o delle leggi li rende farisaicamente indispensabili davanti a Dio. Nessun credito, nessuna pretesa nei confronti di Dio: tutto è dono, gratuitamente offerto, gratuitamente accolto. È il primato di Dio: da sempre ribadito nell’Antico Testamento e qui proposto all’attenzione degli apostoli, in vista della missione. Certo, la parabola sembra risuonare un poco amara ai nostri orecchi moderni e il paragone di Dio come padrone appare urtante. Ma sapendo quanto Luca prediliga nel suo Vangelo sottolineare l’attenzione di Gesù verso gli ultimi e gli emarginati e conoscendo bene tutte le volte che ha stigmatizzato le sperequazioni sociali tra ricchi e poveri, comprendiamo come in questo caso il fulcro della parabola sottolinei solamente la gratuità del lavoro e quindi del servizio ministeriale. Significa che il discepolo è chiamato a svolgere il proprio lavoro non per guadagno o per qualche utilità personale, ma per puro dovere, o meglio per puro amore, e gratuitamente! E tutto ciò perché l’apostolo, il discepolo, il credente appartiene pienamente a Dio e da Dio totalmente dipende!
4. Il tema della fede illumina la liturgia della Parola di questa domenica. La comunità dei credenti trova nella richiesta degli Apostoli – Signore, aumenta la nostra fede – (vangelo), la ripetuta invocazione della Chiesa, che celebra con “animo retto” e nella giustizia (prima lettura) il dono del Signore (seconda lettura). La fede certamente può essere richiesta a Dio, tuttavia è sempre un dono che, gratuitamente, il Signore concede in Gesù Cristo a chi si affida a lui. Un dono, quindi, che non si può calcolare in termini di grandezza: piccolo o grande, minore o maggiore, diminuito o aumentato! Ecco perché Gesù non risponde direttamente alla richiesta degli Apostoli, ma suggerisce loro il criterio della semplicità e dell’estrema fiducia: chi crede non ha bisogno di avere grossi numeri di fede, gli basta averne quanto un granellino di senapa! Non è dunque sulla forza e sulla potenza dei mezzi e delle cose esteriori che si misura e si valuta la riuscita della propria vita e delle proprie scelte cristiane. Non sono le manifestazioni esteriori, che sorprendono o che colpiscono con facili sensazionalismi, che rivelano la rettitudine dell’animo e l’adesione piena a Dio. C’è sempre il rischio di sentirsi padroni di tutto, anche della fede; c’è sempre la tentazione di ritenersi depositari non delle sane parole, ma di atteggiamenti e sensazioni che rivelano una grande fede! C’è sempre il rischio di ritenersi così indispensabili, necessari, ricercati… proprio a motivo della fede che si possiede e delle scelte che si è chiamati a compiere! C’è la reale possibilità di pretendere compensi o gratificazioni per la propria fede, di ritenersi in credito nei confronti di Dio, sempre a motivo della fede, di pensare Dio come obbligato nei confronti del suoi servi! La celebrazione liturgica ci insegna che la fede è adesione a una persona: a Cristo Gesù, che è morto e risorto per noi. È un entrare pienamente nella sua sfera d’influenza e sperimentare la pienezza della comunione con lui. Non si tratta di una adesione intellettuale, ma è una risposta in condizione a una persona che interpella. Una risposta a Dio che nel Figlio Gesù, per mezzo del dono potente e gratuito dello Spirito santo, offre comunione e chiede comunione. La celebrazione domenicale ci fa vivere nella dimensione della fede, ci fa riscoprire il dono della fede. Dono che aspetta una libera risposta e che, proprio attraverso la liturgia, si esprime e si solidifica comunitariamente nella Chiesa. Attraverso la celebrazione, il dono della fede diventa vita che cambia la vita: una sfida aperta alle reali esigenze del mondo contemporaneo, alle richieste di una società per certi versi assente o sfiduciata nei confronti di Dio, per altri assetata, affamata e bisognosa di conoscerlo. I credenti sono chiamati a vivere nelle fede, a fare di tutta la propria vita un confronto continuo con la fede dinanzi alle provocanti e inquietanti manifestazioni di violenza, iniquità, oppressione, rapina, liti, contese (prima lettura)! L’immagine simbolica del granellino di senape e l’icona mirabile dell’albero che cresce, dopo essere trapiantato nel mare, devono spingere tutti i credenti a Cristo a osare nella vita, a non fermarsi dinanzi a nessuna forma di difficoltà, a percorrere ogni strada e a tentare tutti i mezzi per vivere una vita retta e giusta. Una vita che si alimenta nella Trinità e che trova nella fede la risposta a tutti gli interrogativi e la certezza di beni nel presente e nel futuro.

 

DOMENICA XXVIII DEL TEMPO ORDINARIO
9 Ottobre 2016


2Re 5,14-17; 2Tm2,8-13; Lc 17,11-19

1. La prima lettura presenta un brano che fa parte del capitolo 5 del secondo libro dei Re e racconta dell’incontro del profeta Eliseo con Naaman il Siro, capo dell’esercito del re di Aram. La lebbra di cui Naaman è affetto non doveva essere una forma grave, perché altrimenti lo avrebbe escluso dalla vita sociale (Lv 13,45-46), mentre il testo riferisce che «era un personaggio autorevole e stimato, perché per mezzo suo il Signore aveva concesso la vittoria agli Aramei» (2Re 5,1). Davanti alle parole di Eliseo, che chiede di scendere nelle acque del Giordano (v. 10), dopo una prima esitazione (vv. 11-12), sarà l’intervento dei suoi servi a ricondurre Naaman alla ragione. Naaman scende nelle acque e si bagna, disposto a tutto pur di riavere la salute. Convinto proprio dalla riflessione dei servi, deve ancor più constatare che la parola del profeta eseguita produce la guarigione dalla lebbra e il miracolo va anche al di là delle sue stesse aspettative: la sua pelle è sanata e il suo aspetto è ringiovanito. Naaman tornò con tutto il suo seguito dal profeta. È questo il vertice del racconto, nel quale viene manifestata la grandezza di Dio che, oltre a ridurre e piegare il fiero avversario d’Israele, riceve proprio da uno straniero un attestato di lode e di adorazione. È una vera e propria confessione di fede, prodotta dall’intervento miracoloso del profeta. Una confessione che conduce Naaman a riconoscere un solo Dio per tutta la terra e a identificarlo nel Dio d’Israele. L’uomo risanato impara a ricevere tutto da Dio e riconosce che la salvezza è un dono gratuitamente dato e ricevuto anche senza merito.
2. La pericope che oggi la Chiesa ci fa ascoltare nella seconda lettura fa parte di un brano più esteso della seconda lettera a Timoteo (2Tm 2,1-13) che presenta il senso delle sofferenze dell’apostolato cristiano e la fedeltà nelle prove. Si tratta quasi di un testamento spirituale nel quale, in vista della separazione, vengono presentate le prove e le tribolazioni che mettono a dura prova la fedeltà cristiana. E Paolo incoraggia ed esorta Timoteo e la sua Chiesa muovendo dal suo esempio e dalla sua testimonianza (vv. 1-3), ricorrendo anche ad esempi tratti dal servizio militare, dalle gare atletiche e dal mondo dell’agricoltura (vv. 4-6). Ed è proprio a questo punto che si innesta la nostra pericope: ancora più degli esempi desunti dalla vita degli uomini, è il ricordo di Gesù Cristo che deve influire sulla vita di Timoteo e dei credenti tutti. Il ricordo di Gesù Cristo, soprattutto, il richiamo alla sua risurrezione dai morti costituisce la sintesi lapidaria di tutto il vangelo di Paolo e richiama, molto probabilmente, un’antica professione di fede tramandata nella prima comunità cristiana (v. 8). A questa professione di fede segue ancora l’esempio di Paolo, figura ideale e tipica dell’apostolo come martire della fede, che ripete nella sua vita la stessa vita di Cristo, con la sua logica di morte e risurrezione. È l’invito a fare come fa lui, a vivere con la stessa prospettiva dinanzi agli occhi (vv. 9-10). La pericope si chiude con una nuova professione di fede, la citazione di un altro antico inno che sviluppa ancora più marcatamente la prospettiva della morte e della risurrezione applicandola chiaramente alla vita di tutti i cristiani. Un inno che mette a confronto con tre parallelismi Cristo e i cristiani, con cui Paolo si presenta e si associa. Parallelismi sinonimici che si concludono con uno antitetico: l’infedeltà del credente si infrangerà contro la fedeltà di Cristo che rimane fedele. La fedeltà di Cristo diviene esempio per la fedeltà del credente. Una fedeltà che si esprime come perseveranza nelle prove della vita, fiducia incrollabile in Gesù Cristo, morto e risorto.
3. Il brano del vangelo presenta una scena che si svolge durante la salita di Gesù a Gerusalemme (v. 11), cioè sulla via che lo conduce al Padre e che, attraverso di Lui, porta l’uomo alla salvezza. Vengono menzionate la Galilea e la Samaria: un mondo ai margini d’Israele, dove si mescolavano giudei e pagani. In questo universo di esclusi, Gesù opera la guarigione dalla lebbra. Nella mentalità giudaica questa malattia apparteneva alla sfera religiosa e il Levitico (cc. 13-14) descrive l’impurità che essa rappresenta e ne prescrive le leggi della purificazione. Spesso era vista come una punizione di Dio (Nm 12,9-10; 2Re 5,27; 2Cron 26,16-21) e solo da Dio e dalla sua potenza poteva essere debellata. Nella nostra pericope, il carattere di impegno concreto espresso dal ritorno (v.15) del lebbroso purificato è efficacemente messo in evidenza. Si tratta, infatti, di un samaritano, uno che appartiene ai diseredati, agli esclusi, agli ultimi della società. Una duplice accentuazione scandisce il racconto: da un lato la sottolineatura di dieci uomini che ricevono la grazia di Dio; dall’altro la specificazione che solo uno ritorna glorificando Dio a gran voce e si prostra ai piedi di Gesù rendendo grazie. Il racconto è costruito sul rapporto e sulla tensione fra i nove lebbrosi purificati, che non hanno saputo riconoscere  l’azione miracolosa di Dio, e l’unico che ritorna a rendere grazie, uno straniero (v. 18). Tutti e dieci i lebbrosi, infatti, entrano in rapporto con Gesù: lo chiamano per nome (v. 13) e aggiungono il titolo maestro, abitualmente messo da Luca sulla bocca degli apostoli (5,5; 8,24; 9,33.49). Gesù offre a tutti la salvezza e i dieci vengono purificati mentre vanno a mostrarsi ai sacerdoti, secondo la prescrizione del Levitico (Lv 14,2-3). Per tutti Gesù compie una guarigione completa, istantanea, prodigiosa. Tuttavia, di fronte a questo segno evidente di salvezza, si annuncia la terribile incomprensione che segnerà la venuta del figlio dell’uomo che, dalla maggior parte del popolo, non sarà accolto. Soltanto un samaritano dà gloria a Dio e soltanto al samaritano Gesù potrà dire: «Alzati e va: la tua fede ti ha salvato!». Un estraneo, dunque, un eretico secondo il parere del giudeo osservante, sarà l’unico a divenire la testimonianza vivente della salvezza promessa a tutti, indipendentemente dal loro passato, dalla loro condizione sociale, dalla loro appartenenza politica e religiosa, e realizzata attraverso l’adesione piena e sincera a Dio, attraverso Gesù. Tutti sono sanati gratuitamente, per l’intervento portentoso di Gesù: solo uno è salvato perché ha saputo riconoscere la presenza di Dio e a dargli gloria con la sua lode, la prostrazione adorante davanti a Gesù e il ringraziamento. Il ritorno di quest’unico lebbroso permette a Gesù di annunciare la salvezza come conseguenza della fede, che scaturisce da un cuore che sa vedere nei fatti e nei gesti della vita la presenza e l’azione di Dio.
4. La liturgia della Parola di questa ventottesima domenica del Tempo Ordinario pone l’accento sull’universalità della salvezza voluta da Dio e operata da Cristo, che raggiunge ogni uomo indipendentemente dalla nazionalità, dalla sua condizione sociale e politica, ma richiede soltanto l’adesione libera e spontanea della fede. Nella prima lettura uno straniero, guarito dalla lebbra per mezzo del profeta Eliseo, riconosce il Dio di Israele come l’unico Dio della terra, l’unico degno di ricevere da lui sacrifici. Nel vangelo di Luca solo un uomo, fra dieci guariti dalla lebbra, un samaritano, riconosce che la guarigione è opera di Gesù e professa la sua fede in Lui. Tutti sono stati guariti dalla malattia del corpo, ma solo a quest’uomo Gesù dice “la tua fede ti ha salvato”, distinguendo la guarigione del corpo da quella dello spirito. Gli ebrei identificavano malattia e peccato, guarigione e salvezza: egli sfata questa credenza rivelando che anche un corpo apparentemente sano può nascondere un cuore lontano da Dio. Entrambi i brani evidenziano che la professione di fede proviene da uomini non appartenenti al popolo eletto, mettendo in evidenza che l’elezione non si eredita con l’appartenenza a un determinato popolo o a una particolare stirpe, ma è una scelta libera e personale, una risposta a Dio che chiama a riconoscerlo e a seguirlo. In Cristo Gesù tutte le genti si incontrano, le lingue si unificano, gli uomini formano l’unico popolo degli eletti di Dio, preziosi perché frutto del suo sacrificio d’amore, consumato dall’alto della croce e compiuto con la resurrezione. Il valore di ogni uomo salvato dal sacrificio di Cristo spinge l’apostolo Paolo a sopportare ogni cosa perché tutti abbiano la possibilità di conoscere il Vangelo, di essere raggiunti dalla parola di Dio, capace di trasformare i cuori. Per questo, sebbene in catene, non cessa di mettere le ali alla sua voce, di predicare instancabilmente perché gli eletti di Dio possano raggiungere la salvezza e la gloria eterna (2Tm 2,10). Una salvezza che scaturisce dalla fede, ma che richiede una partecipazione piena alla vita stessa di Cristo. È la capacità di portare con lui la croce, che diventa la nostra croce: la capacità di morire, che diventa il nostro morire. In tal modo, la sua resurrezione deve diventare la nostra resurrezione. Ma se l’uomo rinnegherà la sua appartenenza a Cristo, Cristo non sarà come l’uomo, che può essere infedele. L’apostolo rincuora quanti si sono adagiati, hanno perso l’entusiasmo della prima ora e temono di essere esclusi dal popolo degli eletti di Dio. Dio rimane fedele, fedele al suo progetto di salvezza, fedele all’uomo, pronto ad avvolgerlo nel suo abbraccio amorevole ogni volta che, pentito, deciderà di ritornare a Lui.
La Liturgia della Parola di questa domenica ci insegna a rifugiarci nelle braccia amorevoli di Dio ogni qual volta ci allontaniamo da Lui, certi che egli rimane fedele e che il suo amore dura per sempre. Per tale motivo Cristo, ancora oggi, ci invita a riconoscerlo come Signore e Salvatore della nostra vita, ad accoglierlo nel nostro cuore, a trasformare la nostra vita a immagine del Vangelo, a  testimoniare la gioia di appartenere alla famiglia degli eletti di Dio.

 

DOMENICA XXIX DEL TEMPO ORDINARIO

16 Ottobre 2016


Es 17,8-13; 2Tm 3,14–4,2; Lc 18,1-8

1. Il brano dell’Esodo, che apre come prima lettura la liturgia della Parola di questa Domenica,  riporta la preghiera, particolarmente insistente,  di Mosè e ne sottolinea il carattere di sacrificio e di sofferenza per resistere e continuare a rivolgersi a Dio nonostante la fatica. Una fatica che tende alla vittoria finale, ma che ha bisogno del sostegno e della condivisione di altri: Aronne e Cur, due israeliti eminenti e che hanno ruoli importanti e riconosciuti nel seno del popolo d’Israele. Per Mosè, tuttavia, si tratta di uno sforzo immane che accompagna e quasi guida la stessa battaglia, divenendo l’elemento cardine e risolutore per la sconfitta del nemico. Sulla collina, Mosè alzando le mani esercita un influsso che permette agli Israeliti di essere superiori; senza questa azione gli Amaleciti avevano il sopravvento. La forza della preghiera, costante e pressante di Mosè, segna il punto di forza sull’azione umana, che si rafforza per la presenza continua dell’intervento di Dio. Più che la battaglia sul campo è la potente arma della preghiera a segnare in positivo le sorti finali della guerra. Anche se è Giosuè il personaggio che guida i combattenti israeliti alla vittoria, è proprio Mosè, con la sua preghiera, a svolgere il ruolo più importante. Infatti, il risultato non dipenderà né dalla guida del condottiero, né dal valore e dal numero dei guerrieri, né dalla quantità o qualità delle armi, ma soltanto dall’opera silenziosa, ma estremamente costante, di Mosè.
2. Lo stile del brano della seconda lettura è quello tipico delle esortazioni istruttive con la presenza di forti rievocazioni autobiografiche: Paolo, maestro e apostolo, diviene il modello per il fedele discepolo Timoteo. Quest’ultimo, avendo vissuto a stretto contatto con il maestro e a avendolo seguito da vicino,  ha appreso da Paolo e dal suo ministero di predicazione e di azione il modo di essere e di agire proprio dell’apostolo, in particolare quelle che sono le doti necessarie per un buon pastore nella Chiesa. Timoteo, tuttavia, aveva già avviato la sua formazione cristiana fin dall’infanzia, avendola appresa certamente dalla madre e dalla nonna (cfr. 2Tm 1,5: «Ricordo la tua fede sincera, quella fede che hanno avuto anche la tua nonna Lòide e la tua mamma Eunìce»). Timoteo quindi si è formato alla sana dottrina, ricevuta da una cristiana educazione, ma soprattutto fondata sulla sicura e valida garanzia delle Sacre Scritture. Le Scritture comunicano la sapienza che conduce verso la salvezza, per mezzo della fede in Cristo Gesù. Il v. 16, divenuto fonte di innumerevoli discussioni inerenti l’ispirazione biblica, in effetti pone l’accento sulla efficacia pratica della Parola di Dio e sulla sua destinazione operativa, «utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona». Continuando l’esortazione (2Tm 4,1-2), Paolo passa dal tono esortativo a quello proprio del testamento spirituale, con ammonimenti e scongiuri e con l’ingiunzione solenne affinché la Parola sia proclamata insistendo «in ogni occasione opportuna e non opportuna» e ammonendo, rimproverando ed esortando «con ogni magnanimità e dottrina». Queste espressioni sottolineano l’idea dell’urgenza e dell’impegno dell’annunzio, che sono l’essere in atto dell’azione del pastore.
3. Il testo evangelico si apre con una introduzione redazionale di Luca sul dovere e sulla costanza nella preghiera (v. 1), che dà la prima chiave di lettura della parabola presentata da Gesù; prosegue con la descrizione colorita, ma essenziale, della parabola stessa (vv. 2-5); si chiude con l’intervento diretto di Gesù (vv. 6-8) che attualizza la parabola, ne dà una spiegazione esistenziale e pone una provocatoria domanda sulla fede. Per non entrare in tentazione, per non dubitare della venuta del regno di Dio, per superare e vincere ogni scoraggiamento è necessario pregare sempre. Anzi, come suggerisce il testo stesso, bisogna pregare anche quando sembra tempo perso! La preghiera, infatti, non è un optional, qualcosa che si richiede come un’aggiunta o un ornamento alla fede del credente e soprattutto del discepolo: essa è un vero e proprio dovere che esige costanza e continuità e che si fonda sulla richiesta dello stesso Maestro. Ciò non toglie, certamente, che essa sia generosa e spontanea risposta d’amore all’amore di Dio: è proprio dell’amore obbligare ad amare! Gesù illustra la parabola ponendo l’accento su due figure diverse, due personaggi che rappresentano, in qualche modo, le figure socialmente tipiche dell’oppressore e dell’oppresso. Il giudice ingiusto, appartenente a una delle classi più ricche e più influenti, e la vedova  supplicante, prototipo di una delle categorie più indifese, indicano due estremi: da un lato un mondo che vive senza rivolgersi a Dio, senza ascoltare gli uomini e senza scrupoli di alcun genere (v. 2b: «non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno …»); dall’altro una voce che sale da chi si trova nel bisogno e grida con forza, con insistenza e con costanza per ottenere giustizia (v. 3: «una vedova, che andava da lui e gli diceva …»). Pur facendo notare una chiara valutazione differente tra il giudice e la vedova, il senso della parabola è da cercare nel valore dell’insistenza di colui che domanda nei confronti di chi può esaudire una richiesta. Nel testo, Gesù pone l’accento sull’atto finale del giudice e, ribadendone la disonestà, paragona la sua decisione a quella di Dio in favore dei suoi eletti (v. 7). Sono proprio questi, quelli che pregano continuamente, con costanza e senza mai stancarsi (v. 7: «gridano giorno e notte…»), che diventano i suoi eletti, proprietà di Dio, chiamati e scelti da Lui per il giorno della salvezza. Giorno preparato e invocato con la preghiera; giorno ormai imminente della venuta del Figlio dell’uomo. Il Regno glorioso ed escatologico si sta avvicinando e la preghiera ne affretta l’arrivo. Tuttavia esiste un serio problema: «il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (v. 8b). Troverà quell’adesione di fede amorevole, vissuta nella fedeltà e nella testimonianza di vita quotidiana, confermata nella costanza delle prove? È la domanda finale e provocatoria di Gesù: una domanda per ciascuno di noi, oggi. Avremo noi la fede della vedova, incessante e confidente in Dio? Vivremo noi la vita nel segno di un sì pieno dato a Dio e ai fratelli? Alla sua venuta, ci troverà così il Signore?
4. La liturgia odierna, soprattutto leggendo in parallelo il brano evangelico con quello dell’Esodo, mette in rilievo, tra i tanti possibili, uno degli aspetti più fondamentali della preghiera: la capacità e la volontà di essere perseveranti e costanti nell’invocare il Signore, nel domandare con fiducia, nell’insistere con determinazione… Questo aspetto chiarisce quella modalità di preghiera che rivela l’essere stesso dell’uomo che si pone in trasparenza alla luce di Dio, si riconosce per quello che è, prende coscienza delle proprie deboli forze e riconosce la grandezza e la potenza di Dio, la sua santità, il suo amore, la sua volontà di misericordia nei confronti dell’uomo. Non si tratta, dunque, solamente di un tener duro, bensì di quella capacità di contemplare ogni giorno nella comunità, nella Parola di Dio, nella Chiesa, nella presenza misteriosa di Gesù, nel dono sempre attuale e vivificante dello Spirito Santo, il vero volto di Dio Padre, sempre premuroso, attento e sollecito alle necessità dei suoi figli. È una preghiera che mette Dio al centro dell’agire dell’uomo, in mezzo alla quotidianità della vita, tra le vicende più gravi e pericolose, come quelle di una guerra (prima lettura) e tra quelle più ordinarie, ma pur sempre difficili da gestire, come i rapporti di giustizia, di legalità fra le relazioni umane (Vangelo). Tutto questo si può e si deve realizzare partendo dalla Parola di Dio (prima lettura), che ci fa penetrare pienamente nel dinamismo della preghiera, facendoci riscoprire la fonte a cui attingere «perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Tm 3,17). Insistendo sulla preghiera non si può non dare un posto primario alla Parola scritta, come strumento necessario per nutrire la fede e dare sostegno al nostro colloquio con Dio. Il cristiano maturo è un credente che vive la vita della liturgia e della preghiera e, nell’una e nell’altra, è guidato dalla ricchezza, dalla solidità e dalla forza delle Sacre Scritture che, come Parola di Dio vivente nella Chiesa, lo sostengono, lo incoraggiano, lo rafforzano nel cammino cristiano e nelle prove della vita.

 

DOMENICA XXX DEL TEMPO ORDINARIO

23 Ottobre 2016


Sir 35,12-14.16-18; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14

1. Il brano del Siracide, che costituisce il testo della prima lettura di questa Domenica del Tempo Ordinario, fa parte di un capitolo che si apre (35,1-11) con una riflessione sui sacrifici che, senza disposizione interiore, sono un inganno, e che continua, proprio nel nostro testo, con l’interiorizzazione del vero culto nella preghiera. Di fronte a Dio ci si deve sentire tutti bisognosi e peccatori, poiché il Signore è un giudice imparziale: non è uno che tiene conto delle persone, non è uno che si fa corrompere dai doni (v. 11). Dio è giudice giusto (v. 12)! Infatti, ciò che Dio solamente gradisce e accetta è la preghiera, e la preghiera che Egli esaudisce è quella che gli rivolgono il povero e l’oppresso (v. 13), l’orfano e la vedova (v. 14) e, soprattutto, l’umile (v. 17). Dopo avere ribadito che Dio è, per definizione (cfr. Es 22,21-22; Pr 22,22-23; 23,10-11), il protettore e il difensore del povero, dell’orfano e della vedova, l’attenzione si sofferma sull’umile. Ed è proprio sulla preghiera dell’umile che si concentra la riflessione dell’Autore. Con un denso e pittoresco linguaggio simbolico («la sua preghiera giungerà fino alle nubi… la preghiera dell’umile penetra le nubi»: vv. 16-17) vengono ribadite l’efficacia, la potenza e la ferma costanza («non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto») della preghiera. Qualità queste che rendono possibile l’adempimento della vera giustizia di Dio «con la soddisfazione dei giusti e ristabilendo l’equità» (v. 18).
2. Il testo della seconda lettura fa parte del testamento di Paolo, che vede ormai vicino il suo martirio, intravvisto come un sacrificio cruento, e si abbandona ai ricordi con espressioni metaforiche e immagini ricche si significato simbolico per esortare Timoteo e i cristiani a imitarlo con coraggio nelle prove della vita per la vittoria finale (vv. 7-8). Appaiono, infatti, tre immagini diverse, di cui le prime due legate alla terminologia sportiva (combattere la battaglia e terminare la corsa), mentre la terza è un’immagine tipicamente teologica (conservare la fede). Le prime due immagini in effetti spingono verso la terza che le chiarifica e che dà il senso e la motivazione dell’agire di Paolo. Anche se non si parla esplicitamente di morte, è facilmente comprensibile che a essa fa riferimento l’Apostolo. Le metafore sportive della lotta e della corsa direttamente connesse con quella della corona (v. 8a) fanno presagire che la gara è giunta alla fine. Anche Paolo è giunto al suo traguardo, intravvede la fine del suo cammino con la prospettiva di un premio, simile a quello che gli atleti ottengono al termine della loro gara. Da notare, tuttavia, che per Paolo si tratta di un premio differente: certo una corona, ma una corona di giustizia! E qui ritorna il tema, presente nella prima lettura, della giustizia di Dio, il quale darà a Paolo e «a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione» (v. 8b) la giusta ricompensa, il premio. Il cristiano che vive unito a Cristo, che lo imita, come Paolo, nelle virtù, nel coraggio, nella perseveranza, non teme ma ama la sua venuta, la sua gloriosa manifestazione dall’alto. Nei versetti finali (vv. 16-18), Paolo evoca la sua condizione personale di sofferenza e di abbandono, parafrasando certamente l’abbandono di Gesù da parte dei suoi discepoli. Egli si sente come il Maestro e perdona («Non se ne tenga conto contro di loro»: v. 16) come ha perdonato Lui (cfr. Lc 23,34) e come ha perdonato Stefano ai suoi lapidatori (cfr. At 7,59-60) e a Paolo stesso che ne custodiva il mantello (cfr. At 7,58). Abbandonato da tutti, ma certamente no dal Signore, che Paolo ha sentito sempre vicino e che gli ha dato forza per annunziare il vangelo (v. 17). La presenza costante del Signore è la garanzia per l’annunzio evangelico e missionario dell’Apostolo, sostegno nelle prove e liberazione da ogni male, addirittura anche «dalla bocca del leone»: un’altra espressione metaforica dell’Apostolo e proverbiale nella comunità ebraica per indicare un pericolo estremo (cfr. Dan 6,20; 1Mac 2,60).
3. La parabola del fariseo e del pubblicano, esclusiva di Luca, che costituisce il brano del vangelo di questa Domenica, è un vero e proprio racconto esemplare, che non mette in primo luogo l’accento sulla preghiera in quanto tale, ma su un atteggiamento che, all’occorrenza, si manifesta nella preghiera. Si tratta quasi di un’istruzione d’uso, contro con quel tipo di atteggiamenti e di personaggi di cui si parla già nell’introduzione («alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri»: v. 9): gente soddisfatta della propria giustizia e sprezzante nei confronti del prossimo. Un atteggiamento spirituale a due facce, nei riguardi di Dio e nei riguardi degli altri: da una parte si ripone la propria fiducia in se stessi piuttosto che in Dio, dall’altra si disprezzano gli altri. La parabola è un invito all’introspezione per ogni credente, perché parla di qualcosa di molto radicato nel cuore di ogni uomo. È tanto facile che l’amore per Dio si trasformi in un amore idolatra per se stessi; è tanto facile scambiare il dono per un bene proprio e trasformare la preghiera in una vanagloria personale. Il fariseo, nella sua preghiera, formulata in una posizione arrogante quasi da pari a pari stando in piedi (v. 11a), rivela di non essere capace di ricevere nessun dono: è già ricco di sé e la sua è una preghiera solamente di confronto e di dichiarata superiorità verso gli altri in genere (ladri, ingiusti, adulteri: v. 11b) e il pubblicano in particolare (v. 11c). In tal modo sembra volersi appropriare del ruolo di Dio come giudice, elencando tutti i suoi meriti e ricordando le manchevolezze del pubblicano. Al contrario, il pubblicano si mostra in tutta la sua umiltà («non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo»: v. 13a) e verità: ammette di essere peccatore («si batteva il petto dicendo: o Dio abbi pietà di me peccatore»: v. 13b) e dunque bisognoso della giustizia misericordiosa di Dio. Il contrasto è evidente: la descrizione del comportamento è molto breve nel caso del fariseo, con una sola annotazione, mentre è tre volte più sviluppata nel caso del pubblicano. Viceversa, mentre la preghiera di quest’ultimo contiene una sola formula, quella del fariseo si dilunga nell’elencare tre motivi del suo rendere grazie. La preghiera del fariseo è quella del credente soddisfatto, che non esprime alcuna richiesta e non attende nessuna risposta da parte di Dio. La sua è una preghiera di rendimento di grazie che, tuttavia, non mette in conto la grazia di Dio e i doni che da Lui provengono. Anche Maria, nello stesso vangelo di Luca, rende grazie a Dio ma fa precedere e seguire questo ringraziamento da innumerevoli espressioni che sintetizzano le manifestazioni della gratuita benevolenza divina (cfr. Lc 1,46-55). Come contrasto, la preghiera del pubblicano non ha nulla da fare valere: è pura richiesta, formulata da un peccatore cosciente della sua condizione nei confronti di Dio e del prossimo. Alla fine (v. 14a) si conosce il verdetto di Dio, che è il contrario di quello che ciascuno dei due personaggi aveva dato di se stesso nella preghiera; Luca vi aggiunge una notazione (v.14b) che riprende certamente una parola di Gesù, utilizzata anche in altri contesti sia da Luca (cfr. Lc 14,11) sia da Matteo (cfr. Mt 23,12).
4. La preghiera è fede in azione, non un esercizio di pietà eseguito per dimostrare qualcosa a qualcuno, né tanto meno l’esposizione a Dio del proprio curriculum di buone opere per ottenere giustizia e misericordia. Quando la preghiera si esaurisce nell’autoesaltazione davanti al prossimo e, addirittura, davanti allo stesso Dio, allora non può essere esaudita con il dono gratuito della giustizia di Dio. Il dono è dato a colui che non lo possiede e il fariseo con il suo possesso, in quanto presume di essere in regola e di avere tutto in ordine, non lo può ricevere (vangelo). Questo tema centrale è introdotto nella liturgia di oggi dalla prima lettura, che insiste sulla bontà di Dio dinanzi al quale non c’è preferenza di persona né parzialità con nessuno. Al contrario, Dio restituisce dignità agli umili e dà soddisfazione alle loro preghiere fino a quando non sono completamente esaudite. Anche Paolo (seconda lettura), che tuttavia esalta il suo stile di vita battagliero (la buona battaglia) e inarrestabile (la corsa), si adegua a questa logica di verità nei confronti di Dio e di attesa della sua infinita misericordia. In effetti, la differenza tra l’esaltarsi del fariseo e il gloriarsi di Paolo sta nel fatto che l’Apostolo attribuisce tutto a Dio, il quale gli ha dato forza e gli è stato vicino in ogni prova della sua vita. Il suo orgoglio tende non a mettersi al di sopra degli altri, non a giudicare e a insuperbirsi, ma alla conservazione della fede e non significa compiacimento del suo operato, ma di ciò che il Signore giusto giudice ha operato in lui e attraverso lui. La liturgia della Parola di oggi esorta a non creare gerarchie arbitrarie tra i credenti, a non restringere il dono della salvezza all’enumerazione di parole, di opere, di riti, alla contrapposizione tra giusti e peccatori. Spinge, al contrario, a gettare un sincero e appassionato sguardo introspettivo e a dare speranza,  nella stessa certezza di Paolo e nell’umile abbandono del pubblicano, che il Signore libererà da ogni male e salverà per il suo regno eterno ogni credente che confida non nei suoi mezzi, ma nella grazia di Dio.

 

DOMENICA XXXI DEL TEMPO ORDINARIO

30 Ottobre 2016


Sap 11,22-12,2; 2Ts 1,11-2,2; Lc 19,1-10


1. Il brano della prima lettura di questa domenica, tratto dal libro della Sapienza, presenta gli ultimi sei versetti del capitolo 11 – che illustra in chiave allegorica, con termini ascetici e spirituali, la misura, il numero e il peso dell’opera creata da Dio – e i primi due versetti del capitolo 12 – che celebra la longanimità di Dio, il quale punisce con lentezza e benevolenza per ottenere la conversione. Il v. 22, che richiama per assonanza di idee il passo di Is 40,15 «… tutti i popoli furono considerati come goccia che cade da un secchio e come grammo sulla bilancia e come granello di polvere saranno considerati …», indica la smisurata potenza di Dio perché tutto il mondo è assolutamente un nulla, un granello di polvere sulla bilancia, una goccia di rugiada. Proprio perché Dio è onnipotente, la sua misericordia è estesa a tutte le genti («hai compassione di tutti», v. 23), in una universalità messa in rilievo dalla ripetizione di espressioni che indicano questa ampiezza ed estensione del suo amore (vv. 23-24). Dio ha pietà e misericordia di tutti e ha pazienza con i peccatori che, comunque, non possono sfuggirgli, perché Egli può tutto e la sua bontà mira a condurre al pentimento il colpevole (cfr. Rm 2,4: «la bontà di Dio ti spinge alla conversione»). Ciò esprime un pensiero comune a tutto il mondo giudaico: Dio ama tutte le cose che ha creato, le ha create solo per amore e mai le avrebbe create mosso dall’odio. Anzi, Dio chiama (v. 25a) le creature alla vita e in vita le mantiene (v. 25b). Dio opera continuamente e senza la sua opera nulla potrebbe continuare ad esistere, perché Egli è amante della vita (v. 26). Con questa bellissima espressione, che si riferisce a Dio, e con l’insistenza su tutti, viene ribadito chiaramente che la longanimità e la paternità di Dio non sono riservate solo al popolo eletto, ma sono estese a tutti gli uomini che hanno la possibilità, ricordando i propri peccati e rinnegata la malvagità, di credere nuovamente nel Signore (12,1-2).
2. Il testo di Paolo ai Tessalonicesi, che costituisce il brano della seconda lettura, unisce gli ultimi due versetti del capitolo primo (1,11-12) ai primi due versetti del capitolo secondo (2,1-2). Nei versetti che chiudono il capitolo primo l’Apostolo, in forma di preghiera, si rivolge a Dio per la comunità che crede e soffre sulla terra. Paolo prega perché la comunità si mostri degna del dono ricevuto (della sua chiamata) e poiché la perfezione ancora non si è raggiunta, è necessario sempre pregare Dio per portare a compimento ogni volontà di bene e l’opera della fede (v. 11) A questo compimento si giunge attraverso un cammino molto lungo. Il cristiano deve schiudersi ogni giorno all’azione di Dio su di lui, per potere crescere sempre più, fino all’età adulta. Il compimento dell’opera della fede è lo scopo che Dio vuole raggiungere nella sua comunità. Tanto il singolo fedele, quanto la comunità nel suo complesso devono fidarsi sempre più di Cristo. Per Paolo, alla base della sua preghiera e come fine primario vi è la glorificazione del nome del Signore nostro Gesù Cristo (v. 12a), che sarà anche la gloria della comunità cristiana in voi e voi in lui (v. 12b).  La manifestazione della gloria, allora, sarà reciproca: il Signore sarà glorificato nei fedeli e ed essi riceveranno la gloria in Lui e da Lui. Tuttavia ciò è possibile da raggiungere per l’azione di grazia e per la benevolenza operata da Dio stesso e da Gesù Cristo (v. 12c). I restanti due versetti del capitolo secondo esortano a evitare facili e falsi allarmismi riguardo alla nuova venuta di Gesù Cristo: non ci si deve fare ingannare da nessuno, né da  pretese ispirazioni, né da parole dette, né da qualche lettera scritta, ma si deve attendere con pazienza e fiducia la venuta del Signore (cf. Mt 24,4: «E Gesù, rispondendo, disse loro: Guardate che nessuno vi seduca. Poiché molti verranno sotto il mio nome, dicendo: Io sono il Cristo, e ne sedurranno molti»).
3. All’episodio del cieco di Gerico (Lc 18,35-43), che precede immediatamente il testo del vangelo di questa Domenica, e che è comune con gli altri Sinottici, Luca fa seguire il brano di Zaccheo, che invece è esclusivo del suo vangelo. Al giudeo, mendicante e cieco, bisognoso della salvezza e della guarigione di Gesù, Luca aggiunge il ricco pubblicano. Un uomo disprezzato per i suoi continui contatti con i pagani, riconosciuto peccatore da tutti, ma cercato in mezzo alla folla e avviato dallo stesso Gesù ad accogliere la salvezza che entra nella sua casa. Giudei e pubblicani, mendicanti e ciechi, stranieri e pagani: per tutti Gesù è il Salvatore! L’incontro tra Gesù e Zaccheo è certamente un incontro di salvezza, voluto da Gesù, ma dinanzi al quale Zaccheo si mostra prontamente disponibile. Una disponibilità che appare fin dall’inizio, fin da quando, saputo dell’ingresso di Gesù a Gerico, «cercava di vedere quale fosse Gesù…» (v. 3). Desiderio di vedere che apre al desiderio d’incontrare, certamente di conoscere, di chiedere, di cambiare. Il desiderio del pubblicano non è però il desiderio principale che il testo sottolinea. Ve ne è un altro, una vera e propria volontà: quella del Figlio dell’uomo «che è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (v. 10). Il ricco pubblicano scende “in fretta” dall’albero! La sua è un’ansia di salvezza. Non può e non vuole aspettare ancora. La proposta di Gesù (v. 5: «scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua…») è prontamente accettata da Zaccheo, che non si attarda più, ma passa subito da un atteggiamento accogliente a una vera e fattiva accoglienza. Quella di Zaccheo non è la fretta dell’uomo superficiale, né la sbrigativa risposta a una chiamata. È la fretta evangelica, tipica di chi ha trovato il tesoro nel campo e la perla preziosa (cfr. Mt 13,44-45): impaziente di aspettare e spinto da una foga incontenibile, corre immediatamente a vendere quanto possiede per acquistare l’uno e l’altra, ritenuti ormai un bene ineguagliabile. Oltre alla fretta di un incontro atteso e voluto, la visita di Gesù a Zaccheo è una scintilla che provoca un’esplosione di gioia immediata e incontenibile, come quella di Giovanni nel grembo di Elisabetta, all’incontro con Maria che porta Gesù (Lc 1,41.44); come quella di Maria che magnifica il Signore per i doni che Dio ha operato in lei (Lc 1,46ss.); come quella degli Angeli che annunziano ai pastori la nascita «… di un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,10-11); come quella del pastore, della donna e del padre misericordioso che ritrovano la pecora, la dracma e il figlio che ritenevano perduti (Lc 15). Una gioia che contagia, che chiama alla festa, che invita parenti e vicini a condividere la stessa casa, la stessa mensa … la stessa vita! Il regno di Dio fa irruzione in un uomo piccolo di statura, ma che si rivela grande nella fede. La sua statura vera è quella del cuore che è disposto ad accogliere Gesù e a cambiare vita. Non si tratta di centimetri, né di altezza corporea. Ancora una volta, non è questione di quantità, ma di qualità! In base a ciò Dio misura il cuore dell’uomo. E quello di Zaccheo è un cuore grande, che sa domandare perdono e che si lascia sorprendere con gioia dalla misericordia di Dio.
4. Il tema dominante della liturgia della Parola di questa Domenica del Tempo Ordinario è la misericordia di Dio, alla quale si accompagna la conversione dell’uomo. Il Libro della Sapienza ha ricordato la magnanimità, la bontà e la misericordia di Dio che si estende su tutta la creazione e su ogni singola creatura: Dio ama le cose che ha creato, ha compassione di tutti gli uomini, vuole il loro pentimento e corregge lentamente chi è colpevole e meritevole di castigo. Ma è soprattutto con il brano del Vangelo, e con l’indiscusso protagonista Zaccheo che questo tema della misericordia e del pentimento raggiunge l’apice della riflessione. Nell’autoinvito di Gesù a casa di Zaccheo si manifesta ancora una volta l’iniziativa misericordiosa di Dio che ha compassione dell’uomo e che spinge l’uomo al pentimento e alla conversione di vita. Gesù dona a Zaccheo la salvezza facendogli prendere coscienza del suo peccato e della necessità di mutare atteggiamento di vita. Dall’incontro con Gesù, Zaccheo rimane quasi folgorato e non è più lo stesso uomo di prima: ora è capace di scelte nuove, coraggiose e contro corrente, rispetto a come gestiva prima la sua vita. Una vita nuova e rinnovata, animata dalla gioia di accogliere il Signore, che gli altri stentano a capire («Vedendo ciò tutti mormoravano: è andato ad alloggiare da un peccatore! »). Questa è la facile riflessione di chi è pronto a giudicare sempre l’altro a non cogliere i segni di un cambiamento di vita, a etichettare per sempre l’agire del prossimo, a non dare una nuova possibilità a chi, magari, ha sbagliato ma ha la chiara e ferma volontà di redimersi. È la tentazione di una società che si chiude dinanzi al diverso, all’emarginato, al carcerato uscito di prigione e che cerca un reinserimento onesto nella vita di ogni giorno, al tossicodipendente che si è guadagnato una speranza nuova dopo un lungo e doloroso cammino in una comunità in cui ha potuto guarire le sue ferite fisiche e spirituali e sentirsi nuovamente un uomo nuovo… Oggi la Chiesa è chiamata a dare questo annuncio di speranza e di misericordia, che proviene dalla grandezza della misericordia di Dio e che è offerta gratuitamente a chiunque volge a Lui lo sguardo, nel pentimento e nel reale desiderio di conversione.

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