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Newsletter Culmine e Fonte n. 1/2016 articoli

Newsletter Culmine e Fonte n. 1/2016

Sommario:

 

Nei libri dell’Antico Testamento il concetto di “misericordia” è reso da almeno tre termini. Ciascuno di loro illumina gli altri. Da una considerazione complessiva dei tre termini risulta una illustrazione articolata del concetto che si traduce in una dimensione dinamica: la misericordia si fonda sulla benevolenza, genera tenerezza e compassione e si estrinseca in comportamenti di clemenza e di perdono.


La misericordia nell’Antico Testamento
Mons. Marco Frisina


Il concetto di misericordia nell’Antico Testamento è rappresentato da un ventaglio di significati tra loro complementari, capaci di descrivere l’atteggiamento di Dio nei nostri confronti in tutta la sua ricchezza. I termini usati sono più di uno e ciascuno di essi mostra una qualità e una dinamica dell’azione di Dio: solo nella loro complessità possiamo comprendere tutta «l’ampiezza, l’altezza e la profondità» dell’amore di Dio (cf. Ef 3,18).     
A questo riguardo è particolarmente interessante l’autopresentazione del Signore che ci offre il brano di Es 34,5-7. Qui Dio si rivela a Mosè dichiarando la propria identità e mettendo insieme i termini biblici che si riferiscono a quella che noi chiamiamo sinteticamente misericordia ma che in realtà è un concetto molto più ampio. Il brano dice:

Allora il Signore scese nella nube,
si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore.
Il Signore passò davanti a lui proclamando:
"Il Signore, il Signore, Dio misericordioso (raḥum) e pietoso (ḥannun),
lento all'ira (‘erek ‘appim) e ricco di grazia (ḥesed) e di fedeltà (‘emeth) ,
che conserva il suo favore (ḥesed) per mille generazioni,
che perdona (nose’) la colpa, la trasgressione e il peccato,
ma non lascia senza punizione,
che castiga la colpa dei padri nei figli
e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione" (Es 34, 5-7).

In questi versetti è riassunto il vocabolario anticotestamentario della misericordia in tutta la sua ricchezza espressiva. I diversi termini ḥesed, reḥem e ḥnn rappresentano le sfaccettature di un concetto complesso e profondo che non possiamo semplicemente definire con un termine unico ma come un concetto multiforme che dobbiamo approfondire con una lettura della Scrittura trasversale. I tre termini rimandano l’uno all’altro e spesso sono collegati insieme formando una sorta di collana, costringendoci a passare dall’uno all’altro per comprendere il significato di ciascuno. Queste parole rivelano il volto e il cuore di Dio con tutto il suo mistero, quell’identità che Giovanni sintetizzerà con l’espressione: «Dio è amore» (1Gv 4,16).

Ḥesed – bontà-benevolenza

Il termine ḥesed ha sfumature diverse, indica la bontà, la grazia ma anche la benevolenza, è usato prevalentemente nei Salmi (127 volte) e in vari luoghi particolarmente significativi, come in Es 20,6; 34,6-7; Dt 5,9ss; Is 9,6 ed altri. Spesso è usato in relazione con ‘emet, come nel caso di Es 34, che ci ricorda fortemente come la benevolenza di Dio e la sua fedeltà all’alleanza stretta con il suo popolo sono in relazione strettissima. Questa benevolenza divina è anche fedele e generosa, tollera le debolezze e le infedeltà degli uomini perché si fonda sulla sua eterna fedeltà. Questa bontà divina descrive dunque una relazione esigente tra Dio e l’uomo, si tratta di una benevolenza che esige reciprocità, anche l’uomo deve dimostrare la sua ḥesed nei verso Dio che diviene risposta amorosa nei confronti dell’atteggiamento del Signore che si piega sull’uomo offrendogli la sua magnanimità. Questa espressione che accosta benevolenza e fedeltà indica per gli studiosi una formula liturgica: infatti possiamo trovare la ricorrenza nel Salterio dell’espressione ḥesed wᵉ’emet (Sal 25,10; 40,11.12; 57,4; 61,8; 86,15; 115,1; 138,2 e altri). La benevolenza (ḥesed) di Dio riempie l’universo (Sal 33,5; 119,64), è alta come il cielo e scende sull’uomo (57,11; 86,13; 117,2), lo segue, lo protegge, lo circonda, lo nutre (32,10; 90,14 etc.). L’espressione liturgica la sua misericordia è per sempre (kî lᵉolām ḥasdô) diviene l’elemento fondamentale della litania del salmo 136. Il canto del salmista è una vera apoteosi della fedeltà misericordiosa di Dio che viene contemplata nella creazione e nella storia di Israele. Questa benevolenza divina percorre la storia e ne diviene il significato profondo, la chiave di lettura. Similmente nel Cantico della Vergine Maria si ricorda che «di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono» (Lc 1,50). La fedeltà all’Alleanza di Dio si trasforma nell’uomo in una corrispondenza amorevole e gioiosa. Egli è sempre «lento all’ira» (‘erek ‘appim) perché proprio la benevolenza e la bontà sono proprie della natura divina: ogni azione di Dio lo rivela.
Il termine ḥesed può essere riferito anche ai comportamenti umani, soprattutto negli scritti sapienziali, con il significato di benevolenza, che si traduce in un atteggiamento gratuito e amichevole e in una attenzione concreta verso l’altro. Ma gli uomini devono avere soprattutto ḥesed verso Dio, ovvero dedizione cordiale e amore verso di lui, come appare in Os 2,21:
Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa
nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza.

Rḥm – tenerezza-compassione
In questo brano del profeta Osea la parola ḥesed è accostata a un altro termine che appare tra gli attributi di Dio, ugualmente importante per comprendere il senso della misericordia nell’AT: raḥªmīm che significa viscere, utero, profondità affettiva. Questo termine descrive il sentimento della misericordia, la tenerezza che scuote le viscere, lì dove si reputava fosse l’origine di questo sentimento. Inoltre reḥem designa l’utero femminile con tutto il significato simbolico che questo viene ad avere in riferimento alla misericordia di Dio (cfr. Is 63,15; Ger 31,20). L’accostamento a ḥesed, come in Es 34, ci fa comprendere come la benevolenza di Dio non è astratta e lontana ma si fa commozione profonda, viscerale, tenerezza che fa fremere la nostra interiorità (Is 54,8.10; Lam 3,32). Nella Scrittura rḥm, “avere misericordia-tenerezza”, è usato in Is 49,15 per descrivere l’amore tenero della madre per il suo bambino, un amore grandissimo anche se quello di Dio per noi lo trascende infinitamente.
Si dimentica forse una donna del suo bambino,
così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?
Anche se costoro si dimenticassero,
io invece non ti dimenticherò mai. (Is 49,15)

Il termine viene usato anche per descrivere l’amore paterno nel Sal 103,13:
Come è tenero un padre verso i figli,
così il Signore è tenero verso quelli che lo temono.

Così anche nel Sal 145,8-9:
Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.

Il termine rḥm nella Scrittura è sempre riservato a Dio e al rapporto di figliolanza che egli realizza con il suo popolo (Os 1,6; 2,6.25; Ger 12,15; 42,12; Zac 10,6) fino a divenire semplicemente un attributo di Dio (Is 49,10; 54,10). Il legame con il perdono è sottolineato in altri brani, tutti straordinari per comprendere come la tenerezza di Dio è concreta e vicina ad ogni uomo peccatore (1Re 8,50; Is 55,7; Mi 7,19; Pro 28,13; Dan 9,9).

Ḥnn – essere clemente-far grazia

Spesso troviamo accostati i termini rḥm e ḥnn: l’uno e l’altro si completano a vicenda mostrando uno la tenerezza profonda e l’altro la condiscendenza del sovrano verso il suo suddito. Infatti il termine ḥen, “grazia”, deriva dal linguaggio di corte dove il sovrano concede la grazia e il suo favore a un sottoposto. Nella Scrittura troviamo l’espressione “trovare grazia presso Dio” (cfr. Noè: Gen 6,8; Mosè: Es 33,12; Gedeone: Gdc 6,17; Davide: 1Sam 16,22; Ester: Est 7,3; Maria: Lc 1,30), essa accompagna la storia della salvezza mostrando la misericordia attiva di Dio nei confronti degli uomini, del Signore e dei suoi servi fedeli ai quali egli concede misericordia. Il verbo ḥnn può tradursi con essere misericordioso e clemente, avere considerazione, concedere favore e affetto, ed è rivolto ai bisognosi, ai poveri (cfr. gli anziani: Lam 4,16; gli orfani: Sal 109,12; i bambini: Dt 28,50). In Proverbi si sottolinea il rapporto tra la nostra compassione per i miseri e il comportamento di Dio: «Chi opprime il povero offende il suo creatore, chi ha pietà del misero lo onora» (Pro 14,31), «Chi ha pietà del povero fa un prestito al Signore, che gli darà la sua ricompensa». (Pro 19,17). Questo verbo è attribuito solamente al Signore, egli solo fa grazia, egli solo può donare il perdono ed esercitare la clemenza nei confronti del peccato e della colpa.


Il verbo ḥnn ricorre anche nel nome del profeta Giovanni, Joḥanan significa infatti “il Signore fa misericordia” , e caratterizza fortemente la vocazione e la missione del profeta. La vita di Giovanni Battista diviene l’incarnazione concreta dell’annuncio della salvezza e della misericordia di Dio, la sua persona è già la certezza che il Signore viene a fare misericordia al suo popolo. La grazia che il Signore viene a portare è il perdono e la riconciliazione, è la restaurazione da parte di Dio di quell’alleanza abbandonata e tradita che Cristo viene a sigillare con il suo sacrificio d’amore.


La misericordia, dunque, non è semplicemente un atteggiamento di bontà e generosità verso il prossimo ma è una realtà più ampia e articolata che descrive l’atteggiamento di Dio nei confronti della creazione e degli uomini. La misericordiosa benevolenza di Dio deriva dalla sua eterna fedeltà all’alleanza, è la manifestazione del suo progetto d’amore per gli uomini, di quel «mistero nascosto nei secoli» di cui ci parla Paolo (Ef 1). Quest’atteggiamento unisce in sé anche la compassione e la tenerezza di un padre nei confronti della debolezza della sua creatura e insieme è volontà di grazia e perdono. Gli attributi divini con cui il Signore si rivela a Mosè nella visione di Es 34 ci rivelano veramente l’identità di Dio, il suo cuore che ama eternamente e nello stesso tempo la sua infinita grandezza. Quando l’uomo entra nel rapporto profondo dell’alleanza con Dio deve comportarsi come lui: anche noi dobbiamo imparare questa misericordia, ritrovare la causa della benevolenza divina, il rapporto autentico e profondo con lui, e viverlo coerentemente con i fratelli. Noi siamo un popolo di graziati e perdonati: condividere questa consapevolezza, imparare a perdonare e a piegarci verso l’altro ci rende imitatori di Dio ed eredi dei beni straordinari dell’alleanza. Gesù viene a svelare tutto questo e compiendo la nuova ed eterna alleanza ci mette in comunione con lui, rendendoci così capaci di essere «misericordiosi come il Padre» (Lc 6,36).

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