Articoli n. 4/2016 - http://www.ufficioliturgicoroma.it "La liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia." Questo sito vuole migliorare il servizio che l'Ufficio Liturgico offre alla Diocesi di Roma e ha lo scopo di rispondere alle diverse esigenze pastorali. it 18/04/2016: 1 - Editoriale > p. G. Midili Mon, 18 Apr 2016 12:56:46 GMT newsletter-nonrispondere@ufficioliturgicoroma.it (Young at Work communication - www.yatw.eu) Cari amici,
ecco una nuova news letter dell’Ufficio liturgico, per accompagnare il percorso giubilare e il cammino di formazione liturgica.
Troverete un articolo del professore Lopez Tello, monaco benedettino, che ha preparato per noi uno studio sulla misericordia, nel contesto del Giubileo.
Il secondo articolo è una ricerca della professoressa Lorenzale sulle sette opere di misericordia corporale, come ci sono presentate dagli artisti romani.
Infine l’ultimo testo è il commento di Sua Eccellenza Mons. Benigno Papa al lezionario domenicale.

Buon cammino del tempo Pasquale!

P. Giuseppe Midili

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18/04/2016: 2 - Liturgia della Parola > Sua Ecc.za Mons. Luigi Benigno Papa Tue, 19 Apr 2016 10:08:09 GMT newsletter-nonrispondere@ufficioliturgicoroma.it (Young at Work communication - www.yatw.eu) LITURGIA DELLA PAROLA (DALLA SECONDA ALLA SESTA DOMENICA DI PASQUA)

a cura di Sua Ecc.za Mons. Luigi Benigno Papa

 

SECONDA DOMENICA DI PASQUA
At 5,12-16; Ap 1,9-11.12-13.17-19; Gv 20,19-31

1. La decisione di san Giovanni Paolo II di celebrare la seconda domenica di Pasqua come domenica della Divina Misericordia ci offre un utile criterio interpretativo dei testi eucologici e biblici della celebrazione eucaristica, per vivere il Mistero pasquale celebrato come espressione comunitaria di ringraziamento a Dio che, nella sua infinita misericordia ci ha fatto dono di Cristo nostro redentore. Egli con la sua morte e risurrezione ci ha fatto passare dalla morte alla vita, dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dalla disperazione alla speranza. Ci sono di particolare aiuto la Colletta e il Salmo responsoriale che fanno esplicito riferimento alla misericordia di Dio, ma anche i testi biblici che raccontano l’incontro del Risorto con gli apostoli (Gv 20,19-31) e con i singoli fedeli (Ap 1,9-ss) e la testimonianza che la comunità del Risorto ha dato nell’esercizio della sua missione.
2. La Colletta ci invita a leggere e a vivere il Mistero pasquale di Cristo nella sua realtà oggettiva e nella sua valenza salvifica per la vita dei battezzati, come un dono della misericordia di Dio alla quale l’assemblea orante si rivolge perché accresca in tutti i cristiani la grazia che Egli ci ha dato. Non si finisce infatti mai di apprezzare la ricchezza del battesimo, dello Spirito, del Signore che ci hanno liberati, purificati, rigenerati.
Molto opportunamente la liturgia dell’Ottava di Pasqua invita i fedeli a pregare con il salmo 118 che è l’ultimo salmo dell’Hallel pasquale e che probabilmente è stato cantato dallo stesso Gesù nella cena pasquale (Mc 14,26); il salmo celebra l’amore misericordioso di Dio secondo i moduli e l’azione liturgica di ringraziamento fatta nel Tempio. Conosciuto nel giudaismo dei monaci di Qumran, il salmo 118 è entrato con facilità nella vita della comunità cristiana per il contenuto centrale che sviluppa. Nel salmo infatti si parla di un uomo disprezzato, rigettato e perseguitato dagli uomini, ma salvato e onorato da Dio, che gli aveva affidato un importante incarico. Non hanno fatto molta fatica i cristiani per vedere in quest’uomo una prefigurazione di Cristo, rigettato dagli uomini ma salvato da Dio con la sua risurrezione. Questa rilettura cristiana è presente nel Vangelo (Mt 21,33-43), negli Atti degli Apostoli e nella prima lettera di Pietro con riferimento al versetto 22 del salmo che parla della “pietra scartata dai costruttori” di cui si dà un’ interpretazione cristologica ed ecclesiologica. L’interpretazione cristologica è presente nel kerigma di Pietro: “Questo Gesù che voi avete ucciso e che Dio ha risuscitato dai morti, è la pietra scartata da voi costruttori, è diventata testata d’angolo (At 4,11). L’interpretazione ecclesiologica è presente in  modo particolare nel Vangelo di Matteo, citato prima e nella prima lettera di Pietro, in un testo in cui è interessante notare come il simbolismo della pietra, che nell’Antico Testamento era riferito a Dio, a Israele e al Tempio, è dai cristiani riferito a Cristo e alla Chiesa considerata come un popolo sacerdotale: “Stringendovi a Lui (Cristo) pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta, preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo. Si legge infatti nella scrittura: «Ecco io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa, e chi crederà in essa non resterà confuso»” ( 1Pt 2,4-6). Interessante, nell’esegesi patristica del salmo 118 quanto scrive sant’Agostino a proposito del versetto 22: “Su Cristo pietra angolare si fondono due pareti. Non possono fare un angolo se non due pareti che si intersecano da linee diverse. Così i due popoli (quello giudaico e quello pagano) si incrociano nella pace cristiana, in una sola fede, una sola speranza, una sola carità.
Il salmo responsoriale contiene dunque un pressante invito a tutta l’assembla liturgica affinché sia grata alla misericordia di Dio che ha glorificato Gesù, che gli uomini avevano condannato, e perché con tale glorificazione è nato un nuovo popolo sacerdotale costituito dai battezzati che appartengono non a un solo gruppo etnico ma a tutta l’umanità.
3. In continuità con il messaggio del Vangelo della veglia pasquale, al cui centro c’era la designazione del Risorto come il “Vivente”, la testimonianza neotestamentaria della seconda domenica di Pasqua ci dice che il Risorto si incontra con la comunità degli apostoli (Vangelo) e con i singoli cristiani (seconda lettura).
La seconda lettura racconta infatti l’incontro del Risorto con un nostro fratello nella fede, Giovanni, che a causa della predicazione della parola e della testimonianza di Gesù Cristo si trova in esilio nell’isola di Patmos. L’incontro ha luogo nel giorno del Signore, cioè la domenica, giorno in cui i cristiani già nella Chiesa nascente celebravano il ricordo della risurrezione del Signore. Mentre Giovanni partecipa a una celebrazione eucaristica in comunione con la comunità radunata, ha una esperienza mistica (“Fui rapito nello Spirito” dice il testo greco) che gli permette di “vedere” e “udire” quanto egli racconta con una terminologia simbolica caratteristica del genere letterario delle Apocalissi “Vidi sette candelabri d’oro e in mezzo ai candelabri c’era uno simile a Figlio di Uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto di una fascia d’oro”. La figura del personaggio simile al Figlio dell’Uomo si ispira a Dan 7,13, la sua descrizione Dan 10,6-ss. Per Giovanni egli è senza alcun dubbio il Messia e si mostra a lui in tutta la sua maestà di sacerdote e di giudice. La dignità sacerdotale è espressa dalla indicazione dell’abito lungo fino ai piedi che indossava. La cintura d’oro indica la gloria celeste del Messia sacerdote. La rivelazione del Risorto nella sua dignità messianica sacerdotale è in sintonia con il tema del popolo sacerdotale che è uno dei temi ricorrenti nel libro dell’Apocalisse. I sette candelabri in mezzo ai quali è presente il Figlio dell’Uomo sono il simbolo delle sette chiese (1,20). Per Giovanni il Risorto che egli vede è identificato come giudice, messia, sacerdote, capo della Chiesa, la cui vita è “nella sua mano destra” (2,16). Tale è l’apparizione della quale fu gratificato Giovanni nel giorno del Signore.
Spaventato dalla maestà e dallo splendore di questa visione egli cadde ai piedi del Figlio dell’Uomo come morto. Ma il Risorto dissipa il timore del discepolo e gli fa comprendere che la visione non ha per scopo la morte ma la salvezza e la vita e a questo scopo Egli aggiunge una triplice dichiarazione. Si attribuisce anzitutto tre titoli che nella tradizione biblica sono propri di Dio: “Io sono il primo, l’ultimo e il Vivente”; con essi ha inteso dire che Egli è anteriore a ogni creatura e alla fine del mondo restaurerà ogni cosa. Tutto è stato fatto per mezzo di Lui e tutto vive per Lui. Poi afferma che l’attribuzione di questi titoli divini è avvenuta con la sua vittoria sulla morte, la sua risurrezione che gli ha dato il potere sulla morte e sulla vita. Il presente e il futuro della Chiesa è sotto la signoria del Risorto. Si tratta di una rivelazione che infonde coraggio ai credenti e alle comunità cristiane che vivono in una situazione di persecuzione, come era allora alla fine del primo secolo e come è oggi in molte parti del mondo. Anche la signoria di Cristo risorto sulla chiesa e sul mondo è una manifestazione dell’Amore misericordioso di Dio di cui essere riconoscenti.
4. Il racconto evangelico narra che l’incontro del Risorto con i discepoli, avvenuto la sera dello stesso giorno di Pasqua, dà origine alla comunità cristiana e la invia in missione perché essa continui nel mondo la stessa missione di Gesù.
I discepoli ai quali appare il Risorto sono dominati dalla paura che li costringe a stare chiusi in una stanza con le porte sprangate “per timore dei giudei”. Hanno paura di fare la stessa fine del maestro. Sono fisicamente vivi ma spiritualmente morti. Mostrando loro le mani e il costato, il Risorto intende far capire che egli è la stessa persona che era stata crocifissa, ma che con la sua risurrezione aveva riportato vittoria sulla morte. La sua presenza basta perché siano liberati dalla paura. Scrive infatti l’autore della lettera agli Ebrei “Proprio per essere stato alla prova e aver sofferto personalmente, Gesù è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (2,18). Gesù non solo augura la pace ma augurandola la dona, come aveva promesso loro (Gv 14,27). I discepoli che riconoscono Gesù scoprono che l’incontro con il Risorto è sorgente di gioia, quella gioia che anche Gesù aveva promesso (Gv 16, 20-22). La gioia e la pace sono due caratteristiche specifiche della vita della comunità cristiana che nasce appunto la sera stessa di Pasqua con l’incontro dei discepoli con il Risorto. Il Vangelo dice che Egli “si fermò in mezzo a loro”. La comunità cristiana ha, infatti, il suo centro nel Signore risorto. Egli è la fonte della vita, il fattore di unità, la vite nella quale si innestano i tralci. Alla comunità dei discepoli riconciliati con il loro Signore, purificati nel cuore e liberi dalla paura, il Risorto affida una missione. La loro elezione a discepoli era finalizzata alla missione, essa è in continuità con quella di Gesù e deve essere esercitata con le stesse modalità con cui l’ha esercitata Gesù. Perciò il Risorto dona ai discepoli lo Spirito Santo, che nel Vangelo di Giovanni è principio di santificazione. Non a caso il dono dello Spirito è associato al potere di rimettere i peccati concesso ai discepoli. Compito essenziale della missione della Chiesa è la riconciliazione degli uomini con Dio. Essa viene attraverso il dono della vita stessa di Dio, lo Spirito Santo, che fa del credente nel Risorto una creatura nuova destinata a vivere in una creazione nuova. Il gesto di Gesù che “alita” sui discepoli prima di effondere loro il dono dello Spirito evoca l’azione dello Spirito alle origini dell’universo e perciò contiene un’allusione alla ripercussione anche cosmica dell’azione dello Spirito. Tommaso non è stato un modello. Gesù infatti dice: “Perche hai veduto, hai creduto; beati quelli che pur non avendo visto crederanno”. Tuttavia dobbiamo ricordare che nella genesi della fede non basta soltanto l’ascolto, è necessaria anche la visione. Non la visione del corpo glorioso di Gesù ma la visione della vita di Gesù che continua in quella dei discepoli. Crediamo attraverso il messaggio dei discepoli di Gesù (Gv 17,20) che continuano a manifestare nel mondo il suo amore (Gv 13,14-17).
5. Ed è precisamente quello che possiamo riscontrare nella missione della comunità apostolica (At 5,12-16). In questo terzo sommario della vita della comunità delle origini notiamo come la missione degli apostoli è in continuità di quella di Gesù e per quanto riguarda l’evangelizzazione propriamente detta (5,14) e per quanto riguarda la testimonianza di carità verso gli ammalati e i poveri. Si ripete per gli apostoli quanto era accaduto nella vita di Gesù al quale si recavano non solo gli abitanti della Giudea e di Gerusalemme ma anche quelli di Tiro e di Sidone per ascoltarlo ed essere guariti (Lc 6,19). La potenza dello Spirito Santo è operante negli apostoli, suoi testimoni. Essi seguono nella pratica il modello dato da Gesù. Annunciano il Vangelo prima con i fatti e poi con le parole. Hanno imparato da Gesù, nella cui persona si rivela il volto della misericordia del Padre, a essere misericordiosi e la loro azione apostolica è una testimonianza luminosa per noi.

TERZA DOMENICA DI PASQUA
At 5,27-32.41-42; Ap 5,11,14; Gv 21,1-19

1. Dal momento che i messaggeri di Dio hanno rivelato alle donne che Gesù Risorto è il Vivente, siamo certi che Egli è presente nella Chiesa e nel mondo. Ma dove possiamo incontrarlo? I racconti pasquali del Vangelo ci parlano di molteplici incontri del Risorto con uomini e con donne, con gli apostoli e alcuni discepoli. Però all’apostolo Tommaso il Risorto ha detto. “Perché mi hai veduto,hai creduto; beati quelli che credono senza aver visto” (Gv 20,28). Non possiamo pretendere di vedere il corpo glorioso di Gesù risorto, questa fase dell’esperienza cristiana si è chiusa con l’Ascensione di Gesù al cielo (At 1,9-11). Tuttavia l’incontro con il Risorto deve essere possibile. Ma dove possiamo incontrarlo? È chiaro che non possiamo essere noi a stabilire i luoghi in cui Egli è presente né a dettare l’agenda dei suoi appuntamenti. Ma sappiamo con certezza, perché è Gesù stesso che ce lo ha detto, che Egli è presente nei poveri (Mt 25,40.45), nell’assemblea dei fedeli riuniti nel suo nome (Mt 18,20), nel memoriale della Cena Pasquale, nelle azione liturgiche della Chiesa, nei sacramenti nella persona dei suoi ministri ordinati (Sacrosanctum Concilium 7). Ma desidero richiamare l’attenzione sul luogo privilegiato dell’incontro con il Risorto che è la celebrazione dell’Eucarestia perché nel Vangelo di oggi si parla dei discepoli che hanno riconosciuto Gesù risorto in un pranzo da Lui offerto che l’evangelista presenta come un pranzo di natura sacramentale (Gv 21,12-14). Un altro riferimento liturgico è presente nella seconda lettura che ci rende partecipi di una duplice dossologia indirizzata a Cristo Gesù, Agnello della nuova e definitiva Pasqua. Il memoriale della Pasqua che noi celebriamo nell’Eucarestia è profezia del memoriale pasquale che si celebra nella Liturgia celeste, alla quale ci associamo sin da questa terra.
2. La seconda lettura ci fa conoscere due inni: il primo proclamato dagli angeli e indirizzato all’Agnello che è stato immolato (5,11), l’altro proclamato dall’universo intero e rivolto a Dio creatore e all’Agnello (5,12-13). L’ultimo libro della scrittura è costellato di dossologie (1,6; 4,9.11; 7,12). Per la comprensione di questa duplice dossologia è importante sapere chi è l’Agnello e perché a Lui deve essere indirizzato l’inno, la gloria e la benedizione. La modalità con cui Giovanni parla di Lui ci rende certi che “l’Agnello, in piedi, come immolato” che egli vede è Gesù “L’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo” (Gv 1,29.36). E’ in piedi in segno di vittoria sulla morte alla quale si era liberamente consegnato. È stato Cristo, morto e risorto, l’unico capace di aprire “il libro del Signore” sigillato, contenente il disegno di Dio sul destino dell’uomo e della storia. È Cristo morto e risorto la chiave interpretativa della storia umana, la vittoria finale di Dio sul mondo è assicurata perché Gesù Cristo con la sua morte e resurrezione ha vinto la battaglia decisiva. Perciò non appena l’Agnello prende il libro dalla mano di Dio esplode “un cantico nuovo”: “Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni lingua, popolo e nazione e hai fatto di loro per il nostro Dio un regno di sacerdoti che regneranno sopra la terra” (5,10). Quest’inno indica la motivazione per la quale il Risorto è il capo della Chiesa e il Signore dell’universo. Egli, con la sua morte e con la vittoria sulla morte, ha realizzato il piano di Dio. Perciò in tutto il santuario celeste risuona il suo inno di lode: “L’Agnello che è stato immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore e benedizione. È interessante notare che sei di queste sette attribuzioni all’Agnello sono uguali a quelle riferite a Dio (7,12) nell’inno che l’intero mondo creato proclama: “ A colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza nei secoli dei secoli” (5,13). Questa duplice dossologia esprime il riconoscimento della signoria di Cristo da parte della Chiesa celeste a cui noi volentieri ci uniamo con il nostro “Amen”.
3. Il brano della prima lettura fa riferimento al momento culminante della missione svolta dagli apostoli a Gerusalemme secondo il comando ricevuto dal Risorto (At 1,8). All’interno del Sinedrio, massima autorità religiosa del giudaismo, gli apostoli dichiarano che la loro missione svolta a Gerusalemme è un atto di obbedienza a Dio. Questo tema era già stato anticipato nella prima fase dello scontro degli apostoli con le autorità giudaiche. A esse Pietro aveva risposto: “Se sia giusto davanti a Dio obbedire a voi più che a Lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere ciò che abbiamo visto e udito” (At 4,19-20). Nella preghiera gli apostoli avevano manifestato la consapevolezza di essere “Servi di Dio” e avevano chiesto a Lui il coraggio di restare fedeli alla loro missione (4,29-31). Messi in carcere, essi sono liberati dall’Angelo del Signore e da Lui inviati nel Tempio per predicate al popolo “tutte queste parole di vita” (5,20). Nel processo formale contro di essi, rei di aver trasgredito il divieto di predicare in nome di Gesù Cristo, Pietro e gli apostoli affermano: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”. La predicazione apostolica è un atto di obbedienza a Dio e allo Spirito che opera in essi e “in tutti coloro che gli obbediscono” (5,32).
Nell’ultimo discorso degli apostoli sono raccolti e sintetizzati tutti gli elementi cristologici del primo discorso di Pietro (3,11-15; 4,8-12). Elementi nuovi sono la sospensione di Gesù al legno e la testimonianza dello Spirito Santo. Il discorso è articolato in forma di antitesi e ha il suo centro nell’affermazione della esaltazione di Gesù come Capo e Salvatore. La menzione della sospensione di Gesù a un legno serve a creare un contrasto fortissimo con l’annuncio del versetto 5,31: “Colui che secondo la legge doveva essere conosciuto come un maledetto da Dio, è stato invece da Dio esaltato come Capo e Salvatore”. Questi due titoli cristologici esprimono quanto era stato detto prima di Gesù “Capo della vita” (3,15), nel cui Nome soltanto c’è salvezza (4,12). Nel termine “Capo” (archegòn) c’è l’idea di Cristo che è causa della salvezza e, nello stesso tempo, modello della salvezza. Essa è rivolta anche a Israele, a cui si augurano la grazia della conversione e il perdono dei peccati.
Meritano un’attenzione particolare i due ultimi versetti del brano, che corrispondono agli ultimi due versetti della prima parte degli Atti degli Apostoli. Essi sono un sommario in parallelismo progressivo con il sommario conclusivo del Vangelo di Luca (24,52-53); il progresso tra i due sommari è notevole. Da un atto di adorazione verso Gesù, Signore e Messia si passa all’annuncio pubblico di Gesù, Signore e Messia; dalla lode nel Tempio verso Dio alla predicazione nel Tempio e di casa in casa che Gesù è il Risorto; dalla gioia del riconoscimento della divinità di Gesù, punto culminante della cristologia del Vangelo, alla gioia di essere fatti degni di soffrire per amore del nome di Gesù. Questa trasformazione della vita del discepolo missionario può essere opera soltanto dello Spirito.
4. Il brano evangelico narra la manifestazione di Gesù a sette discepoli presso il mare di Tiberiade (21,1-14) e la missione di pastore affidata dal Risorto a Pietro (21,15-19): due unità letterarie distinte ma legate l’una all’altra (21,15) dalla persona di Pietro: è l’unico interlocutore di Gesù nella seconda scena e ha un ruolo di protagonista nella prima (21,3.7b.11). Su iniziativa di Pietro che dice di andare a pescare, gli altri discepoli vanno con lui ma quella notte non prendono nulla. I sette discepoli, che simbolicamente indicano una comunità al completo, quella notte non presero nulla. Quando manca Gesù, che è la luce del mondo, la missione della comunità è infeconda. “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Quando invece i discepoli su comando di Gesù (non ancora identificato dai discepoli) gettano la rete “dalla parte destra della barca” pescano un grande quantità di pesci. La fecondità della missione della Chiesa è legata all’obbedienza alla Parola di Gesù (21,4-6).
Il discepolo che Gesù amava sa cogliere nella fecondità missionaria della Chiesa un segno della presenza del Signore Risorto e avvisa Pietro che lo sconosciuto che aveva comandato di gettare la rete per la pesca è il Signore. A questa notizia Pietro compie un duplice gesto simbolicamente espressivo di un lavorio interiore che era in atto nella sua persona. Il gettarsi nell’acqua per poi uscire da essa richiama il battesimo e la veste che si cinge ai fianchi richiama quella indossata da Gesù per lavare i piedi ai discepoli (Gv 13,4).
Ai discepoli scesi a terra Gesù aveva preparato un dono che essi subito notano: pane e pesce sopra la brace. Ma al pranzo che sta per offrire vuole che anche loro collaborino con il frutto della loro missione. A questa richiesta fatta a tutti risponde subito Pietro che porta a Gesù la rete che era stata riempita di 153 grossi pesci senza che essa si spezzasse. San Girolamo vede qui simbolicamente rappresentata la missione della Chiesa chiamata raccogliere tutti gli uomini nell’unica comunità. Terminata la missione Gesù invita tutti i discepoli a mangiare il pane e il pesce che aveva loro preparato e altri pesci pescati da loro. Ed è lui stesso che si avvicina, prende il pane e lo dà loro; così pure il pesce. I gesti che Gesù compie sono gli stessi descritti in Gv 6,11 e in entrambi i casi si tratta di pane e di pesce. Il pane che Gesù distribuisce durante la sua vita è nel discorso successivo identificato con la sua carne che dà la vita al mondo: prefigura l’azione futura della Chiesa che nella celebrazione dell’Eucaristia dona il pane di Cristo al mondo. In Gv 21,13 Gesù si dà ai suoi, continua a donare se stesso ai suoi come aveva fatto sulla croce. Non solo il pane è simbolo di Cristo che dona la sua vita per noi: anche il pesce arrostito ha lo stesso significato simbolico. Diceva sant’Agostino: “Il pesce arrostito è Cristo crocifisso” (piscis assus, Christus passus). Con la partecipazione a questa azione sacramentale Pietro sperimenta che Gesù ha donato e dona la sua vita per tutti. Non si può essere veri discepoli se non si accoglie l’amore di Dio e non si fonda su di esso il proprio impegno apostolico.
Questa è la conversione di Pietro che i versetti 21,15-19 testimoniano. Nel corso della sua vita Gesù aveva rivolto il suo sguardo di amore su Pietro e gli aveva annunciato il conferimento di un missione (Gv 1,40-42). In un momento nodale della missione di Gesù, Pietro manifesta la sua disponibilità ad accogliere il mistero di Cristo anche se non lo comprende (Gv 6,66-68). Nell’ultima cena e nel corso della passione il profilo spirituale di Pietro registra i suoi limiti, si rifiuta di lasciarsi lavare i piedi da Gesù, presume di essere disposto a dare la sua vita per Lui (13,6.37), ma Gesù gli predice che lo tradirà tre volte (13,38), cosa che avvenne (18,17.25-27). Egli pensava che il Regno di Dio si dovesse realizzare con l’uso della forza (18,10).
Alla luce dell’esperienza pasquale Pietro ha capito che Gesù ha fatto di tutta la sua vita un dono di amore che poi ha manifestato al massimo grado con la sua morte. Ha imparato anche che, al di là di ogni sua naturale propensione al protagonismo e alla presunzione, il suo primo compito era quello di accogliere tale amore di Gesù e, con l’aiuto di esso, dare il proprio contributo di amore facendo di Gesù il modello della sua vita sino alla disponibilità a dare la sua vita per condividere lo stesso destino. Il mandato missionario di pastore della Chiesa è stato dato dal Risorto dopo aver verificato che in Pietro era avvenuta una vera conversione che si concretizzava nell’accettazione che il cammino della sua vita fosse lo stesso cammino di Gesù.


QUARTA DOMENICA DI PASQUA
At 13,14.43-52; Sal 99(100) 2-3.5; Ap 7-9.14b-17; Gv 10,27-30

1. L’inno di lode e di ringraziamento del salmo responsoriale dovrebbe dare il tono a tutta la celebrazione eucaristica. La modalità migliore con la quale celebrarla è infatti indicata dal salmo che tutta l’assemblea è invitata a fare proprio: nel suo significato storico e nella rilettura cristologica suggerita dalla liturgia indica a noi cristiani la vera risposta che siamo chiamati a dare a Dio che ci illumina con la sua parola.
Il ritornello “Noi siamo il suo popolo e gregge che egli pasce” ci fa prendere coscienza della nostra identità cristiana, della consapevolezza di fede che deve accompagnarci nella celebrazione, alla quale siamo presenti non come persone private, e neppure come cristiani messi gli uni acconto agli altri ma come “popolo di Dio”, popolo che appartiene a Lui e che Dio guida con sapienza e amore. E come popolo di Dio siamo un popolo dal volto multiforme perché noi cristiani non apparteniamo a un solo gruppo etnico ma a tutti i popoli della terra (prima lettura) e in quanto tali siamo insistentemente invitati a lodare il Signore e a servirlo non solo nella liturgia ma anche nella vita, nella gioia, ad avvicinarci a Lui non con timore e tanto meno come servi, ma come uomini liberi nell’esultanza. I motivi indicati dal salmo a fondamento di un tale atteggiamento di gioia sono sei: tre indicati nel versetto terzo e tre indicati nel versetto quinto “Il Signore è Dio; Egli è il nostro creatore; Noi siamo suo popolo (v 3); “il Signore è buono; il suo amore è eterno, la sua fedeltà è perenne (v 5)”. Queste motivazioni valgono anche per noi cristiani. Gesù nel Vangelo afferma “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30). Nel prologo del suo Vangelo Giovanni dice che “Tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui nulla è stato fatto di ciò che esiste”. L’amore e la fedeltà di Dio di cui parla il salmo si sono manifestati visibilmente nella persona di Gesù (Gv 1,17). Noi siamo il suo popolo per la Nuova Alleanza avvenuta con il versamento del suo sangue (Lc 22,20). Gesù è il buon pastore che ha dato la sua vita per noi (Gv 10,11) e come Agnello è il pastore che “ci guiderà alle fonti delle acque della vita” (seconda lettura). Il salmo ci ricorda inoltre che Dio solo è il Pastore supremo il cui volto si riflette visibilmente in Colui che è la sua immagine, il Cristo buon pastore. La Chiesa è il gregge di Dio e “le pecore anche se governate da pastori umani sono però incessantemente condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il pastore buono e il principe dei pastori” (LG 6). I pastori umani nella Chiesa non sono i padroni del gregge, non sono pastori per conto proprio o sostituti di un Pastore assente, sono invece “sacramento” del buon pastore, coloro che lo rendono presente come Pastore e, allo stesso tempo, sono i servitori della sua permanente azione finalizzata al bene di tutti.
2. La prima lettura ci pone di fronte a un testo degli Atti degli Apostoli che è molto importante per la comprensione della storia della missione apostolica e della teologia della missione che anima tutta la seconda parte dell’opera di Luca. Protagonista della missione è Paolo che nell’evento di Damasco aveva ricevuto dal Risorto la missione di portare il suo nome alle nazioni pagane (At 9,15). Prima di giungere ad Antiochia di Pisidia nel corso del suo primo viaggio missionario, iniziato in seguito a una missione affidata a lui e a Barnaba dalla comunità di Antiochia di Siria (At 13,3), Paolo aveva svolto la sua attività soltanto nelle sinagoghe dei giudei (At 9,29) e nella comunità cristiana (At 11,26). Anche ad Antiochia di Pisidia il suo primo luogo di evangelizzazione è stato la sinagoga ove erano presenti ebrei e timorati di Dio, persone cioè che erano simpatizzanti della religione ebraica e partecipavano al loro culto. Anche Gesù aveva iniziato la sua missione nelle sinagoghe (Lc 4,14.31.44). Questa scelta non avviene per caso ma obbedisce a una priorità storico-salvifica dell’annuncio della salvezza di Israele in quanto popolo erede dell’alleanza di Abramo, come risulta con chiarezza dalle parole di Pietro: “Dio dopo aver risuscitato il suo servo, ci ha mandati prima di tutto a voi per portarvi la benedizione” (At 3,25-26). Questa idea è presente anche nelle parole di Paolo ad Antiochia di Pisidia: “Era necessario che fosse annunciata a voi per primi la parola di Dio” (At 13,46a). Ma ad Antiochia accade un fatto nuovo: l’ostilità dei giudei (13,45) provoca una svolta decisiva nella missione, la decisione di rivolgersi al mondo pagano. Quando Luca scrive la sua opera, questa scelta era avvenuta già da molto tempo, la comunità cristiana che è sullo sfondo della sua opera è costituita da cristiani provenienti in grandissima parte dal mondo pagano. Di questa discontinuità socio-religiosa l’autore cerca la ragione e la trova nel disegno salvifico di Dio presente nelle Scritture. Paolo infatti, a giustificazione della scelta di rivolgersi ai pagani, cita Isaia 49,6: “Io ti ho posto come luce per le genti, perché tu porti la salvezza sino alle estremità della terra”. Questo testo di Isaia è citato da Luca nel Vangelo (2,36) per dire che Gesù Messia è il servo di Jahwè destinato da Dio a essere luce delle genti e portare la salvezza a tutti i popoli ed è citato anche negli Atti degli Apostoli quando il Risorto affida a loro la missione di essere suoi testimoni sino alle estremità della terra (1,8). Se è vero che alla defezione del popolo di Israele è avvenuto l’ingresso dei pagani nella comunità cristiana, la loro evangelizzazione non è stata motivata dal fatto che essi devono rimpiazzare i giudei, ma perché così era scritto nel disegno salvifico di Dio, che aveva fatto di Gesù il Messia nel cui nome soltanto c’è salvezza per il mondo intero (4,11). I credenti in lui, chiamati a essere suoi testimoni (1,8;22,15;26,16), hanno sentito la responsabilità di portare l’annuncio di Cristo al mondo intero.
Paolo è stato il più grande missionario di Cristo al mondo non ebraico ed è stato anche colui che più di tutti ha sofferto per il fatto che Israele come popolo non aveva accolto Gesù (Rm 9-11). Il brano della prima lettura termina con la descrizione della comunità cristiana di Antiochia di Pisidia, generata alla fede da Paolo, che sperimenta la gioia del vangelo donatale dallo Spirito Santo.
3. Il brano evangelico continua il discorso di Gesù buon pastore interrotto al versetto 10,18. Se la sua ripresa è stata collocata dall’evangelista in un altro contesto e dopo l’esplicita domanda dei giudei se Gesù fosse il Messia, egli intende dire che proprio il buon pastore è il Messia. Per chiarire l’identità della comunità cristiana con Gesù, simboleggiata dalle pecore e dal pastore, Gesù fa tre affermazioni su di esse a cui ne corrispondono altrettante sul pastore: “Le pecore ascoltano la voce - Gesù le conosce; le pecore lo seguono - Egli dona loro la vita eterna; le pecore non andranno mai perdute - nessuno le strapperà dalle sue mani.”
Il primo elemento di identità è l’ascolto, che nella terminologia di Giovanni significa adesione di fede a Gesù, credenza in Lui, nella sua parola. E dal momento che Egli è anche vita (14,6), ascoltarlo significa vivere (5,25). All’ascolto della parola da parte delle pecore corrisponde la loro conoscenza da parte di Gesù. Con il termine conoscere (10,14) Gesù intende esprimere una relazione reciproca, una unità profonda tra il credente e Gesù nell’amore. Ascoltare Gesù vuol dire accoglierlo nella totalità della sua persona, conoscere il credente significa amarlo nella totalità del suo essere. Ascoltare Gesù non vuol dire dare a lui soltanto un’adesione verbale o di principio, ma impegnarsi con lui e come lui al servizio degli altri. A coloro che lo seguono in questo modo Gesù dona la vita piena e definitiva, una nuova nascita attraverso il dono dello Spirito che fa della loro realtà creaturale dei veri Figli di Dio (Gv 1,12). Essi non andranno mai perduti perché questa è la missione che il figlio Gesù ha ricevuto dal Padre (Gv 6,39) e a cui Gesù è rimasto fedele (Gv 17,12). La vita che egli dona ai suoi amici supera la morte e nessuna forza terrena ha la capacità di soppiantare la potenza del pastore messianico e perciò i credenti in lui godono una sicurezza perfetta.
Dopo aver illustrato il rapporto dei credenti con Gesù attraverso la metafora della pecora e del pastore, l’evangelista torna a parlare del rapporto di Gesù con il Padre, come aveva fatto già nella seconda parte del discorso del pastore (Gv 10,15-ss). Nel rapporto che c’è tra Gesù e il Padre è facile trovare una garanzia della loro sicurezza, essi sono infatti il dono più grande che il Padre abbia messo nelle mani del Figlio (Gv 6,37.44.65) e Gesù dichiara che “nessuno può rapirle dalle mani del Padre” (Gv 10,29). Essere nelle mani di Gesù equivale a essere nelle mani del Padre e “nessuno può cambiare nulla al mio potere: chi può cambiare quanto io faccio?” (Is 43,13). L’unità del Figlio con il Padre è illustrata da Giovanni nel capitolo 17 del Vangelo dove l’unità dei cristiani tra di loro ha come modello l’unità del Padre con il figlio (17,11.22). Il paragone che Gesù stabilisce tra l’unità dei discepoli e quella del Padre è un unità fondata sull’amore che identifica e compenetra. Nel corso della vita storica è stato Gesù a rendere visibile il Padre con la sua vita di amore. Ora deve essere compito della comunità cristiana unita il dare testimonianza dell’amore di Dio per l’uomo. Essa è il presupposto della missione e, in certo qual modo, il suo termine.
4. La promessa fatta da Gesù ai suoi discepoli di dare loro “la vita eterna” e che nessuno li avrebbe strappati dalla sua mano, trova una conferma nel contenuto della seconda lettura. Essa ci permette di gettare uno sguardo nell’eternità di Dio, nel suo mondo glorioso che è la meta finale del nostro pellegrinaggio storico sulla terra. Secondo la visione di Giovanni raccontata dall’Apocalisse, il “Paradiso” è abitato “da una moltitudine immensa che nessuno poteva contare di ogni nazione, razza, popolo e lingua”. Questo numero sterminato di persone evoca la promessa fatta da Dio ad Abramo secondo la quale la sua discendenza sarebbe stata così numerosa da non potersi contare, come non si possono contare le stelle del cielo (Gen 15,15). Le vesti bianche che indossano è un simbolo che esprime la loro partecipazione alla risurrezione di Cristo, la loro condizione gloriosa.  Hanno conseguito infatti la vittoria finale, simbolicamente espressa dalle palme che hanno nelle mani. Essi stanno finalmente davanti al trono di Dio e al suo Agnello che è Gesù Cristo. Lo stare davanti a Dio e all’Agnello è il conseguimento della beata speranza per la quale hanno combattuto tutta la vita. Perciò stanno davanti a loro “notte e giorno” e prestano un servizio liturgico in comunione con gli angeli di tipo comunitario ed eucaristico, nel senso che sperimentano che la salvezza di cui godono è puro dono di Dio. È un’esperienza di comunione e di amore che fa pensare alla comunione con Dio che godeva Adamo prima dell’esperienza del peccato.
La partecipazione degli eletti alla gloria di Dio è stata operata dalla redenzione di Cristo, con il versamento del suo sangue, la cui fecondità per la salvezza dell’umanità ha permesso di migliorare la qualità della loro vita rendendola simile a quella dell’Agnello. È questo il senso della simbologia della veste candida degli eletti lavata con il sangue dell’Agnello. Al dono di Cristo gli eletti hanno risposto con l’esercizio della libertà impegnata a superare tutte le difficoltà che ostacolano la fedeltà e la perseveranza della fede. Se tutti coloro che ancora sulla terra, i santi, hanno potuto affermare che “solo Dio basta” (santa Teresa D’Avila) e che Dio è il bene, tutto il bene, il sommo bene (san Francesco), mi sembra quasi superfluo leggere che gli eletti che sono nella gloria di Dio “non avranno più fame e non avranno più sete… che Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”. Ci sembra invece bellissimo osservare che Gesù, che è stato Pastore e Agnello nel corso della sua missione sulla terra, anche nella gloria appare come l’Agnello e continui ancora a essere pastore che guida “alle fonti delle acque della vita che ci rendono beati”.


QUINTA DOMENICA DI PASQUA
At 14,21-27; Ap 21,1-5a; Gv 13,31-33a.34-35

1. La celebrazione eucaristica di questa domenica ci sollecita a prendere rinnovata consapevolezza della novità che il Risorto opera nella Chiesa e nel mondo per rendere nuova la nostra preghiera di ringraziamento e perché nuovo sia il nostro impegno missionario per rendere presente nel mondo il Regno di Dio. L’antifona di ingresso invita i fedeli a cantare al Signore “un canto nuovo” per il fatto nuovo accaduto nella storia della predicazione apostolica, la venuta dei pagani alla fede (prima lettura) che non può essere attribuita all’azione dell’uomo ma a quella dello Spirito del Risorto. La seconda lettura ci rende partecipi della visone di Giovanni relativa alla fine dei tempi che ha per oggetto “un nuovo cielo e una nuova terra” operati da Colui che siede sul trono e dice “Ecco io faccio nuove tutte le cose”. Ai suoi discepoli Gesù dona come segno distintivo della loro identità un comandamento “nuovo” che essi possano tradurre in pratica grazie al dono del suo Spirito ricevuto al battesimo. Nella preghiera dopo la comunione il celebrante chiede al Signore che “passiamo dalla decadenza del peccato alla pienezza della vita nuova”. Il Santo Padre chiude la sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium con la citazione del testo dell’Apocalisse “Io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5), parole che infondono fiducia e speranza perché “la Chiesa diventi una casa per molti, una madre per tutti i popoli e renda possibile la nascita di un mondo nuovo” (EG 288) e chiede a Maria “modello ecclesiale per l’evangelizzazione” di “ottenerci un nuovo ardore di carità per portare a tutti il Vangelo della vita che vince la morte” e di darci “la santa audacia per cercare nuove strade perché giunga a tutti il dono della Bellezza che non si spegne”.
L’attesa del “nuovo cielo e della terra nuova” di cui parla la seconda lettura “non deve indebolire bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il Mondo Nuovo. Pertanto benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del Regno di Cristo, tuttavia nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società tale progresso è di grande importanza per il regno di Dio” (GS 39).
Anche la lettera enciclica sulla cura della casa comune termina con la citazione dello stesso testo dell’Apocalisse 21,5 per dire che “stiamo viaggiando verso la casa comune del cielo, ove ogni creatura luminosamente trasformata occuperà il suo posto e avrà qualcosa da offrire ai poveri definitivamente liberati (LS 243). Intanto secondo la linea indicata dalla Gaudium et spes, papa Francesco aggiunge che “Nell’attesa ci uniamo per farci carico di questa casa che ci è stata affidata sapendo che ciò che di buono vi è in essa, verrà assunto nella festa del cielo, insieme a tutte le creature camminiamo su questa terra cercando Dio perché «se il mondo ha un principio ed è stato creato cerca chi lo ha creato, cerca chi gli ha dato inizio, Colui che è il suo Creatore»”. (Ibid. 244)
2. La prima lettura narra il ritorno di Paolo e Barnaba ad Antiochia di Siria. Dopo il successo ottenuto a Derbe, Paolo e Barnaba, invece di proseguire verso Tarso e da questa città raggiungere via terra Antiochia, decidono di ritornare a Listra dove Paolo era stato lapidato e ad Iconio da dove, per un complotto organizzato contro di loro, furono costretti a fuggire ad Antiochia di Pisidia, da dove furono cacciati. La coraggiosa decisione di affrontare una situazione molto pericolosa doveva essere motivata da ragioni serie. In effetti, si trattava di consolidare nella fede la giovane comunità dando a essa un approfondimento dottrinale e organizzativo che le consentisse di perseverare nella fede nonostante le prove alle quali erano esposte. Dopo l’accoglienza del primo annuncio missionario era necessario un approfondimento di esso per essere confermati nella fede. È questa una metodologia pastorale che Paolo seguirà nel corso di tutto il suo ministero apostolico. Esorta perciò i fedeli a essere perseveranti nella fede, perché “è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (At 14,22). Con queste parole gli apostoli intendono dire che secondo le Scritture, come il Messia doveva soffrire per entrare nella gloria (Lc 24,26), così i cristiani per essere partecipi della gloria di Cristo dovevano partecipare alla sua sofferenza.
Perché ci fossero nella comunità cristiana persone che avessero la responsabilità pastorale di vigilare e promuovere il loro bene, Paolo e Barnaba “costituiscono per loro in ogni comunità degli anziani”. Questa istituzione sorta a Gerusalemme (At 11,30) appare presente anche fuori dalla capitale del giudaismo ed è probabile che al tempo in cui Luca scrive essa fosse diffusa anche altrove. Si tratta di una istituzione collegiale che è nominata dai fondatori della comunità, ma non è escluso che per la designazione delle persone abbia avuto un ruolo tutta la comunità dei fedeli (At 6,3.6;16,2-3). La nascita del ministero dei “presbiteri” (anziani) avviene attraverso una cerimonia di investitura caratterizzata da un’intensa preghiera con la quale la comunità affida gli anziani al Signore, e con gli anziani anche i discepoli al cui servizio pastorale gli anziani sono istituiti.
Compiuta la missione ad Istra, Iconio e Antiochia di Pisidia, i missionari attraverso la Pisidia e la Panfidia giungono a Perge, dove Marco si era separato da Barnaba e Paolo, ed evangelizzano la città dove per la defezione di Marco non era stato possibile prima annunciare la Parola di Dio. Imbarcati ad Attalia, Paolo e Barnaba giungono ad Antiochia di Siria  “là dove erano stati affidati alla grazia del Signore per l’impresa che avevano compiuto”. Queste parole richiamano At 13,1-3 e spiegano il mandato missionario assegnato a Paolo e Barnaba. All’inizio del viaggio c’era stato un digiuno, la preghiera e l’imposizione della mani. Il significato teologico di questi gesti era un affidamento dei missionari all’amore attivo di Dio che li abilitava al compimento della missione loro affidata. Designati come missionari, Paolo e Barnaba al ritorno della missione si comportano da capi, convocano la comunità locale e riferiscono non quanto essi hanno compiuto, ma ciò che Dio aveva operato a loro favore e per mezzo loro e come aveva aperto ai pagani la porta della fede. La missione è opera di Dio, i risultati positivi ottenuti vanno attribuiti soltanto a Lui.
3. Il brano evangelico è letterariamente costituito da due distinte pericopi: la prima (Gv 13,31-32), redatta in terza persona, interpreta teologicamente il tradimento di Giuda che aveva già deciso nel cuore di consegnare Gesù ai nemici, la seconda (Gv 13,33-35), redatta nella seconda persona plurale, descrive qual è la caratteristica specifica della comunità dei discepoli di Gesù chiamati a vivere la propria fede nella sua assenza fisica.
All’uscita di Giuda dal cenacolo, Gesù dice: “Ora il Figlio dell’Uomo è stato glorificato e anche Dio è stato glorificato in Lui”. Con la consegna di Gesù da parte di Giuda è iniziata la passione di Gesù che lo condurrà alla morte e che Gesù non subisce passivamente ma accetta con libertà e amore per la salvezza dell’uomo. Perciò la sua morte è la manifestazione della sua gloria e anche della gloria del Padre che ha “tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito perché il mondo si salvi per mezzo di Lui” (Gv3,16). Ma se la passione e morte sono la manifestazione dell’amore di Gesù e di Dio per l’uomo, il frutto che la vita di Gesù ha dato al Padre sarà la comunicazione dell’amore di Dio all’uomo attraverso Gesù che, consegnandosi al Padre, consegna anche il suo Spirito all’uomo perché possa vivere da autentico Figlio di Dio.
Nella seconda pericope, dopo l’annuncio della sua imminente partenza, Gesù indica ai suoi quel è lo statuto della sua comunità: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti conosceranno che siete discepoli miei, dal fatto che avete amore fra voi”. Il comandamento che Gesù dona alla sua comunità non è da intendersi come un precetto di natura legale, ma piuttosto come uno stile di vita che non può che essere lo stile di vita dello stesso Gesù. In risposta all’amore che Gesù ha manifestato ai suoi discepoli, non chiede nulla per sé ma chiede che tra di essi ci sia un amore reciproco reso possibile dal dono del suo Spirito e che sia segno visibile della comunione di amore che c’è tra Gesù e il Padre. Il comandamento dato da Gesù è nuovo perché l’amore del prossimo non è modellato sull’amore di se stesso come nell’Antico Testamento (Lev 19,18), ma sull’amore dato da Gesù, l’uomo perfetto: “come io vi ho amato”. La misura dell’amore fraterno è data dalla modalità con cui Gesù ha manifestato di amare i suoi durante tutta la sua vita, lavando loro i piedi fino al dono della sua stessa esistenza per la loro salvezza. Gesù vuole infine che l’amore dei discepoli sia visibile, tale da poter essere riconosciuto da ogni uomo. Deve perciò essere un amore concreto che si manifesta con le opere, perché tale è stato l’amore di Gesù. Tale amore sarà il segno distintivo della sua comunità. Essa deve mostrare con i fatti al mondo che è possibile vivere in una maniera alternativa l’esistenza umana per la costruzione di una società edificata dalla civiltà dell’amore.
4. La seconda lettura ci consente di gettare uno sguardo contemplativo sulla fase terminale della storia di amore che lo Spirito del Risorto opera nella storia della Chiesa e del mondo. L’amore vicendevole che Gesù ha affidato ai suoi discepoli come testamento spirituale da vivere su questa terra, alla sua presenza invisibile, si manifesterà in tutta la sua pienezza insieme alla presenza visibile del Signore. Quando questo nostro mondo dominato dal peccato sarà scomparso e il “mare”, simbolo del serbatoio abissale del male, non ci sarà più, la Chiesa comunità di amore si manifesterà in tutto il suo splendore come “la Città santa, Gerusalemme nuova, discendente dal cielo, da Dio, preparata come una sposa ornata per il suo sposo”. È una comunione di amore generata tutta da Dio e resa bella dagli ornamenti che indossa, le opere di carità che lo Spirito Santo, l’amore del Padre e del Figlio rende possibile realizzare agli uomini su questa terra. Questa Città Santa è il luogo della dimora di Dio e degli uomini. Perché non ci sarà più una dimora di Dio separata dalla dimora degli uomini “il cielo e la terra di prima sono scomparsi” ma “la tenda di Dio con gli uomini” destinati a vivere sempre insieme uniti, come in Gesù Cristo l’umanità era unita alla divinità. In questa dimora di Dio e degli uomini ove ci può essere solo spazio per la gioia non per la sofferenza, è tutto dono di Dio. Allora sperimenteremo come Dio ci ha amato, come ci ama e come ci amerà nella comunicazione senza veli della sua presenza.

SESTA DOMENICA DI PASQUA
At 15,1-2.22-29; Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29

1. C’è una parola del Vangelo che ci indica la modalità con la quale vivere la liturgia di oggi: pace. Ai discepoli turbati dall’annuncio del suo ritorno al Padre, Gesù dice: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”. La pace è il nome stesso di Dio (Giud 6,24), la pace che circola nella comunione trinitaria è l’archetipo della pace della quale abbiamo bisogno. È un dono di Dio da accogliere con gratitudine, è un bisogno profondo del cuore umano da invocare con frequenza. In un mondo senza pace la Chiesa è chiamata a essere un luogo di pace e una comunità impegnata a offrire la sua collaborazione per la promozione della pace nella società (Mt 5,9). La domanda di pace è così urgente che la Chiesa in ogni celebrazione eucaristica la rivolge al Signore facendo proprio leva sulle parole del Vangelo citate prima, perché Egli, non guardando ai nostri peccati, ci dia unità e pace secondo la sua volontà.
La prima lettura ci offre la testimonianza delle Chiesa apostolica che, sorretta dall’azione dello Spirito Santo; è riuscita a superare una conflittualità che rischiava di dividerla in due tronconi distinti. Il raggiungimento dell’unità ha poi favorito una nuova spinta evangelizzatrice. La seconda lettura ci fa vedere che ebrei e cristiani, storicamente divisi sin dalla venuta di Gesù, si trovano uniti nella Gerusalemme celeste, sulle cui dodici porte stanno scritti “i nomi delle dodici tribù dei figli di Israele” e le cui mura “poggiano su dei basamenti sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello”. Questa unità attestata per la fine del mondo suscita speranza e infonde coraggio a lavorare per anticiparla nella storia come un’unità dell’amore che è sempre possibile.
Ma Gesù che ha detto: “Beati gli operatori di pace perché saranno figli di Dio” ci propone di lavorare come cristiani non solo per la salvaguardia dell’unità della Chiesa e per il superamento delle tensioni presenti all’interno di essa, ma anche per la promozione della pace sociale e della pace nel mondo. A questo proposito occorre valorizzare il prezioso contributo che il Santo Padre ci ha affidato al capitolo quarto della Evangelii Gaudium che tratta della dimensione sociale del Vangelo e dove vengono suggeriti quattro principi che favoriscono la convivenza sociale (il tempo è superiore allo spazio; l’unità prevale sul conflitto; la realtà è più importante dell’idea; il tutto è superiore alla parte) e diverse iniziative di dialogo (dialogo tra fede, ragione e scienza, dialogo ecumenico, la relazione con l’ebraismo, il dialogo interreligioso, il dialogo sociale in un contesto di libertà religiosa) come contributo per la pace.
Soprattutto nel corso della celebrazione eucaristica dobbiamo ricordarci che “il cuore dalla pace è la pace del cuore” che soltanto il Signore ci può donare.
2. La prima lettura ci offre un racconto che indica il problema che ha dato origine al concilio di Gerusalemme (15,1-2) e la conclusione di esso (15,22-29). Per capire quanto è effettivamente accaduto dobbiamo fare necessariamente riferimento ai versetti intermedi che giustificano la conclusione conciliare. Il problema che è all’origine del concilio è introdotto da Luca nei versetti 14,27-15,7°, che hanno la funzione di precisare i termini e l’atmosfera della controversia.  Benché il problema sia stato sollevato soltanto da un gruppo di giudeo-cristiani, esso verte intorno a una questione di principio da cui dipende la vita stessa delle comunità di Antiochia e di Gerusalemme: la pratica della circoncisione come mezzo di salvezza per i pagani che vogliono diventare cristiani (15,1). Tale pratica è poi legata al problema più vasto dell’osservanza o meno della Legge di Mosè (15,5). In primo piano Luca pone non tanto i sostenitori dell’una o dell’altra opinione quanto il problema stesso, per la cui soluzione la comunità di Antiochia decide di mandare una delegazione a Gerusalemme ove il collegio degli apostoli e dei presbiteri si riunisce per dare una soluzione autorevole. Le persone passano in secondo ordine di fronte a un problema che non tocca gli interessi personali di Pietro, Paolo, Barnaba, Giacomo ma il futuro della comunità cristiana.
Dopo aver ascoltato Pietro, Paolo, Barnaba e Giacomo, l’assemblea arriva a una decisione. Gli apostoli, i presbiteri e tutta la comunità dei credenti decidono di scegliere Giuda, Barsabba e Sila che insieme a Paolo e Barnaba devono comunicare ai cristiani provenienti dal paganesimo i risultati del concilio: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi alcun altro obbligo all’infuori di queste cose necessarie: astenervi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla impudicizia”. Per la comprensione di questa decisione occorre tener presente che la venuta dei pagani alla fede non poneva soltanto il problema teologico o di principio della necessità della circoncisione o meno per ottenere la salvezza, ma anche la questione pratica della comunione di mensa tra pagani e giudeo-cristiani (At 11,3). Il problema teologico aveva trovato pacifica soluzione nelle parole autorevoli di Pietro: “Noi crediamo che per la Grazia del Signore Gesù siamo salvati e nello stesso modo anche loro” (15,11), a cui Giacomo dà il suo assenso. Questi però nel suo intervento fa riferimento alla questione pratica della osservanza della legge mosaica e soprattutto alla legislazione relativa ai cibi puri e impuri. Tale questione pratica non è meno importante di quella teologica. La comunione di mensa è più che il semplice coesistere quotidiano di due gruppi di cristiani; essa è concretizzazione della comunione ecclesiale. A nulla varrebbe l’apertura del Vangelo verso i pagani, se poi questi non potessero vivere in comunione con i fratelli giudeo-cristiani. La comunione di mensa è l’espressione concreta di tale fraternità. Il decreto conciliare con le parole: “Abbiamo deciso di non imporvi alcun altro obbligo al di fuori di…” accoglie la proposta di Pietro (15,10-11) e respinge quella avanzata da “quelli della Giudea” (15,1) e con i versetti 15,24-29 accoglie la proposta avanzata da Giacomo e respinge quella dei cristiani provenienti dal partito dei farisei (15,5). I pagani possono entrare a far parte della comunità cristiana senza passare attraverso l’accettazione del giudaismo (pratica della circoncisione e osservanza della legge mosaica) ma con l’impegno di osservare soltanto quattro clausole disciplinari sopracitate che permettono alla Chiesa nascente di essere effettivamente unita sia nella dottrina, sia nella vita. Tale unità, frutto dello Spirito, diventa trampolino di lancio per una maggiore spinta evangelizzatrice.
3. I discepoli turbati e intimoriti per la separazione fisica annunciata da Gesù, vengono da questi consolati: ogni vero discepolo è dimora del Padre e del Figlio, il Padre invierà alla comunità dei discepoli lo Spirito Santo che sarà il loro maestro interiore; nel commiatarsi da loro il Risorto offre in dono la sua pace. Precisando quanto aveva detto prima ai suoi discepoli: “Nella casa del Padre mio ci sono molti posti… vado a prepararvi un posto”, perché nessuno pensasse che Gesù deve salire in senso locale in cielo come se questo fosse un albergo nel quale Gesù prenota una stanza per ciascun discepolo, Gesù dice che ogni cristiano che nella sua vita dimostra di vivere e di accogliere il suo amore mettendo in pratica il suo messaggio, gode della presenza sua e del Padre, diventa la loro dimora. Si tratta di una comunione di amore molto intima subordinata in maniera molto realistica all’essere un vero discepolo di Gesù.
Questi è però consapevole che nel periodo prepasquale i discepoli non possono aver capito tutto ciò che Egli ha insegnato e operato nell’esercizio della sua missione e perciò assicura che essi riceveranno in soccorso dal Padre lo Spirito Santo: “Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”. Queste parole sono importanti perché rivelano la qualità specifica del magistero dello Spirito. Questi non ha una dottrina propria da insegnare in aggiunta a quanto ha insegnato Gesù. La modalità dell’insegnamento dello Spirito consiste in una duplice azione: aiuta la Chiesa tutta e i singoli cristiani a capire in profondità il vero significato salvifico dei gesti e delle parole di Gesù, e nello stesso tempo dà alla Chiesa e ai singoli cristiani la forza di tradurre in termini concreti di vita nuova tutto ciò che Gesù comanda e promette (Gv 2,22;7,39;12,16). Senza il dono dello Spirito non avremmo avuto i Vangeli, non avremmo avuto la Chiesa, la comprensione della figura di Gesù sarebbe stata molto riduttiva della sua vera identità. L’invio dello Spirito Santo da parte del Padre risponde alla richiesta di Gesù e si collega alla sua missione.
È comune a tutti gli ebrei che partono da un luogo o arrivano in un luogo salutare gli altri con la parola “Shalòm”. Non è questo il significato del dono della pace che Gesù offre ai suoi discepoli. Essa non è un banale saluto, ma esperienza viva di quella comunione pasquale di cui aveva parlato prima dicendo che ogni vero discepolo è dimora sua e del Padre. È un’esperienza che permette di vivere la partenza di Gesù verso il Padre attraverso la morte non come una tragedia ma con quella serenità che deriva dalla consapevolezza che la sua morte è la manifestazione suprema del suo amore, è la vittoria sulla morte anche per loro.
4. Lo Spirito Santo promesso da Gesù ai discepoli nel Vangelo è fondamento della beata speranza, caparra dell’eredità concessa a noi, che per il battesimo siamo figli di Dio nel Figlio suo Gesù Cristo e quindi partecipi della sua gloria nella Gerusalemme celeste che l’autore descrive nel brano della seconda lettura.
È una visone che Giovanni ottiene per grazia, trasportato su di un monte alto e grande come Mosè che dal monte Nebo (Dt 32,40) osserva la terra promessa. Essa non è un luogo geografico ma una comunione con Dio che incomincia certo mentre siamo sulla terra ma trova il suo vero compimento nella patria celeste. L’oggetto della visione è “la Santa città di Gerusalemme” che qui è simbolo di tutta la comunità redenta da Cristo che ha terminato il suo pellegrinaggio storico ed è già in possesso della gloria di Dio. Essa avvolge tutta la città  (l’umanità redenta) in modo tale che il suo splendore è descritto con la stessa immagine utilizzata per descrivere l’apparizione di Dio stesso: “un diaspro limpido come cristallo” (21,11;4,3). La città è circondata da mura alte e pesanti che hanno il compito di separare ciò che è dentro da ciò che è fuori, ma non di difendere i suoi abitanti dai nemici. La Gerusalemme celeste è una città dalle porte aperte (21,25) le tre porte (simbolo della divinità) per i quattro punti cardinali (simbolo del cosmo) sono un invito a tutta l’umanità a entrare e condividere la beatitudine dell’incontro con Dio. Su ogni porta c’è scritto il nome di una delle dodici tribù di Israele come sulle dodici pietre poste a fondamento delle mura sono scritti i nomi dei dodici apostoli. È cosi indicata l’unità del popolo santo di Dio e il compimento della promessa fatta nell’antica e nuova alleanza.
Nella Gerusalemme celeste non c’è più bisogno di “segni” o di mediazioni umane perché il Signore Dio Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio e i redenti in Cristo vivono uniti a Dio e all’Agnello compenetrati dalla vita di Dio. Il sole e la luna creati da Dio per illuminare la terra sono ormai superflui perché lo splendore della gloria di Dio che adorna la città fa venire meno ogni luce terrena. Nella misura in cui noi siamo trasfigurati dalla luce di Cristo tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà fanno parte di questa città collocata sul monte.
Noi vogliamo essere pronti per entrare in questa città!

 

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18/04/2016: 3 - Misericordia: uno sguardo di accoglienza e condivisione > P. Tello Tue, 19 Apr 2016 10:08:16 GMT newsletter-nonrispondere@ufficioliturgicoroma.it (Young at Work communication - www.yatw.eu) MISERICORDIA: UNO SGUARDO DI ACCOGLIENZA E CONDIVISIONE

P. Eduardo López-Tello García, osb


Dio è misericordia. Questa è la descrizione di Dio più sconvolgente che mai sia stata fatta nella storia delle religioni. Nessuna di esse è in grado di esprimere la vicinanza di Dio a noi in un modo più umano. Infatti, essa mostra come Dio non è alieno alle nostre difficoltà. Al contrario. Egli è qualcuno che sente le nostre miserie, desolazione, infelicità, peccato, la nostra sofferenza. Egli prova il nostro dolore come proprio. Egli si fa uguale noi per soffrire come noi soffriamo. Dio è simile a noi, sente come noi, perciò noi possiamo sentire il suo abbraccio nella profondità della nostra desolazione, perciò egli è in grado di sorreggerci e sollevarci per donarci una speranza nella notte del dolore.

Ancora di più, la misericordia non è solo cosa di Dio. Noi, dal canto nostro, siamo stati chiamati a identificarci con questo Dio, a diventare ciò che egli è. Egli è amore, perciò noi dobbiamo amare come egli ama, essere “misericordia” così come egli lo è. Parliamo molte volte in modo indifferenziato di amore e misericordia, invece, quando si tratta di noi c'è, fra tra l’uno e l’altra, una piccola ma importante differenza. L'amore è uno sguardo di tenerezza e affetto verso i fratelli in ogni circostanza della vita, positiva o negativa: il marito che accarezza la moglie, il bambino che abbraccia la mamma. La misericordia, invece, è il modo concreto di vivere l'amore nei confronti dei fratelli che soffrono o sono in difficoltà: l'uomo che vede gli esuli che vengono verso l’Europa e sente un fremito che obbliga a fare qualcosa. Ciò vuol dire che la misericordia implica avere un cuore che sia in grado di commuoversi nei confronti dei feriti dalla vita e dal peccato.

Quando parliamo della misericordia, molto spesso dobbiamo dire «avere» misericordia. Infatti, per essere misericordiosi non basta provare ciò che provano i fratelli. Non è un sentimento, è un'opera da eseguire. Bisogna agire affinché gli altri sentano il nostro sguardo di amore, vedano un gesto di compassione che tocchi e guarisca le loro ferite. Se riusciamo a sfiorare gli altri con le nostre opere, la misericordia diventa il modo nel quale noi facciamo presente Dio nella loro vita, non con parole vuote, ma con segni che parlano da sé. Nell'agire con misericordia facciamo trasparire Dio, lo rendiamo visibile, «tangibile», amabile, adorabile. Solo un amore che si fa misericordia è in grado di trasformare il cuore indurito degli altri in un cuore pieno di compassione.

La misericordia è, dunque, l'amore messo in atto. Perciò le opere di misericordia sono state una costante nella storia della Chiesa, sin dalla stessa vita di Gesù. Egli ha guardato il dolore dell'uomo ed è divento medico dei corpi e delle anime dei suoi coetanei. Ha guarito le ferite e le malattie e, similmente, ha guarito l'anima di quanti si rivolgevano a lui. Questo doppio rapporto di Gesù con gli uomini del suo tempo giustifica perché la Chiesa ha diviso le opere di misericordia in “corporali” e “spirituali”. Dobbiamo curare il corpo e lo spirito dei nostri fratelli.

Lo Spirito suscita nella vita della Chiesa la dedizione alla cura delle malattie fisiche, ma anche alla cura dello spirito dolente dell'uomo. Essa assume il compito di unire le opere di carità spirituali e corporali. Non sono comprensibili le une senza le altre, ma la tradizione della Chiesa le ha separate per motivi catechetici. Dato che le opere di misericordia sono il frutto dello Spirito, partiamo dalla considerazione delle opere di carità spirituale nel percorso che ci apprestiamo a fare.

1) Consigliare i dubbiosi

Il dubbio è consustanziale alla fede. Se non ci fosse il dubbio, non sarebbe necessaria la fede. Non dubitare significa avere una contemplazione diretta e immediata di Dio, il che soltanto può avvenire dopo la nostra morte. Prima dell'arrivo di quel momento di perfetta conoscenza di Dio, la nostra vita è segnata dal dubbio. Esso diventa la fonte più importante di sofferenza nella nostra strada di fede: non vedere Dio, non riuscire a trovarlo, non sapere quale strada intraprendere.

Molte persone in dubbio si sono rivolte ai grandi maestri spirituali che gli hanno offerto il loro consiglio. I padri e le madri del deserto, nonostante il loro raccoglimento lontano dalla società hanno raccolto discepoli e devoti da ogni luogo, proprio per il “balsamo” del loro insegnamento. I padri della Chiesa, uomini forti nella fede, hanno confortato i loro coetanei nella strada per scoprire l'azione di Dio in loro. Forse un caso eminente è sant'Agostino, che condivide nelle Confessioni la sua esperienza spirituale, il suo percorso di fede perché i suoi consigli, il suo esempio possa aiutare gli altri nella loro fede. La stessa esperienza la offrirà secoli dopo san Ignazio di Loyola negli Esercizi spirituali, sintesi della sua strada alla scoperta dello spirito che serve similmente a consigliare gli altri.

Tutti noi siamo chiamati a condividere la nostra fede, anche se non siamo grandi maestri spirituali, anche se siamo dubbiosi: grazie al modo con cui abbiamo vissuto la nostra fede o la nostra preghiera tutti abbiamo superato il dubbio in un momento o in un altro. Siamo chiamati tutti a condividere questa esperienza, a offrire agli altri ciò che i primi maestri chiamavano una «parola di vita», vale a dire, una parola, una frase, un gesto che sorregge il dubbioso. Questa «parola di vita» è il modo che tutti abbiamo di consigliare i dubbiosi. È un gesto di amore, un gesto di carità.

2) Insegnare agli ignoranti

L'insegnamento degli ignoranti è stato uno dei primi compiti della Chiesa. Proprio il catecumenato, configuratosi attorno il secolo IV, è servito per formare nella fede innumerevoli generazioni di cristiani. Successivamente le scuole medievali, che hanno dato origine alle grandi università, hanno avuto lo stesso scopo. Gli ordini monastici e caritativi hanno aperto, dal medioevo alla contemporaneità, scuole per la formazione di bambini e giovani e hanno seguito questa stessa strada. L'insegnamento degli ignoranti non si deve fare soltanto nelle scuole e le università. Lo stesso compito lo dobbiamo adempiere sempre, pur nella nostra piccolezza. Ad esempio, uno dei primi e più importanti compiti della Chiesa è l'attività catechetica nelle parrocchie alla quale tutti noi siamo chiamati a contribuire. La concretezza e l'obbligo di questa attività è una delle esigenze più grandi che abbiamo oggi. Soltanto quando i credenti sono ben formati nella fede, essi possono superare i dubbi. Dal canto nostro, l'obbligo dell'insegnamento della fede richiede la nostra competenza e formazione, da ottenere grazie alle istituzioni che si occupano di questo fornendo gli strumenti adatti a tale servizio ecclesiale.

3) Ammonire i peccatori

L'ammonimento dei peccatori è senz'altro una delle opere di misericordia più difficile da adempiere. Con la scusa di adempiere quest'obbligo di carità, delle volte cadiamo nella critica contro gli altri, senza avere riguardo per la carità. L'ammonimento ai peccatori si trova, sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento, così come in numerosi autori spirituali. Con esso si adempie il comando del Signore: «Se tuo fratello pecca, va' e correggilo fra te e lui solo» (Mt 18, 15). Nell'eseguire quest'indicazione del Signore, dobbiamo far notare che il consiglio avviene «fra te e lui». L'intimità e il dialogo è l'esigenza più grande perché questa opera sia veramente un'opera di misericordia. Altrimenti, se fatta davanti agli altri, può diventare una mancanza di carità. Oltre all'intimità, la seconda esigenza è l'umiltà. Non dobbiamo correggere il peccatore guardandolo dall'alto della nostra giustizia, come se noi fossimo santi e l'altro qualcuno al di sotto di noi. Questo no. Invece dobbiamo guardarlo «dal basso», nella consapevolezza che egli è una persona sofferente che ha bisogno di essere sorretta e accompagnata.

Fino a non tanto tempo fa, quest'opera di misericordia avveniva considerata come la forma di consiglio al peccatore. Invece, quando il Signore ci comanda di correggere il peccatore, non ci dice di «consigliare» il peccatore, bensì di correggerlo. Questo si può fare con le opere, e sarebbe il modo più adatto per la società odierna: un’opera di carità è testimonianza che chiama agli altri alla conversione.

4) Consolare gli afflitti

Spesso l'afflizione porta al dubbio ma, in se stessa, genera ferite difficilmente guaribili. L'afflizione nasce dalle difficoltà e disagi che viviamo nella nostra quotidianità. La vita di ogni giorno porta molti disagi con sé. Il grado più grande dell'afflizione è la desolazione. Quando ci confrontiamo con essa ci domandiamo dove è Dio. Non riusciamo a vederlo, non riusciamo a trovarlo. Basta ricordare ciò che avviene quando muore in modo inatteso una persona a noi cara. Ci domandiamo perché Dio è assente, sentiamo l'afflizione che generano il vuoto della perdita subita e la mancanza di fede.

Come rispondere? Senz'altro con la consolazione. Asciugare le lacrime dei sofferenti è uno dei compiti che ci assalgono continuamente nella nostra vita di fede. In questo caso, come nell'anteriore, bisogna dire che la consolazione degli afflitti non deve necessariamente avvenire sotto la forma di un discorso. Tante volte è molto più importante sedere accanto all'altro, avere uno sguardo di tenerezza, abbracciare con delicatezza. Sono gesti che suscitano la condivisione dei sentimenti e portano a condividere la sofferenza condivisa e l'amore per raggiungere così la guarigione.

Afflizione e desolazione sono dolori dell'anima. Il male e la sofferenza che ci portiamo dietro feriscono e la vera misericordia significa conoscere il cuore dell'uomo e saper giungere a lenire quelle ferite, avendo compassione, sentendo e sostenendo insieme il dolore dell'altro. Questo sta alla radice stessa, etimologica, della parola misericordia, e alla radice di tutte le altre opere di misericordia, come ricorda sant'Agostino:

«Che cosa è la misericordia? Non è altro se non un caricarsi il cuore di un po' di miseria [altrui]. La parola "misericordia" deriva il suo nome dal dolore per il "misero". Tutt'e due le parole ci sono in quel termine: miseria e cuore. Quando il tuo cuore è toccato, colpito dalla miseria altrui, ecco, allora quella è misericordia. Fate attenzione pertanto, fratelli miei, come tutte le buone opere che facciamo nella vita riguardano veramente la misericordia. Ad esempio: tu dai del pane a chi ha fame; daglielo con la partecipazione del cuore, non con noncuranza, per non trattare come un cane l'uomo a te simile. Quando dunque compi un atto di misericordia comportati [così]: se porgi un pane, cerca di essere partecipe della pena di chi ha fame; se dai da bere, partecipa alla pena di chi ha sete; se dai un vestito, condividi la pena di chi non ha vestiti; se dai ospitalità condividi la pena di chi è pellegrino; se visiti un infermo quella di chi ha una malattia; se vai a un funerale ti dispiaccia del morto e se metti pace fra i litiganti pensa all'affanno di chi ha una contesa. Se amiamo Dio e il prossimo non possiamo fare queste cose senza una pena nel cuore. Queste sono le opere buone che provano il nostro essere cristiani» (Disc. 358A,1)

5) Perdonare le offese

Il perdono delle offese è stato caratterizzante dei cristiani sin dai primi momenti, quando essi erano in grado di perdonare i loro persecutori. La configurazione del perdono come caratteristica della Chiesa è avvenuta mediante il sacramento del perdono dei peccati o penitenza. Il perdono che noi riceviamo chiede, dal canto suo, perdonare gli altri. Ci impegniamo ad esso nel Padre nostro: «perdona le nostre offese così come noi perdoniamo i nostri debitori». Non c'è perdono per noi, se prima noi non abbiamo perdonato.

Il perdono delle offese, oltre che una testimonianza di amore, è una testimonianza di umiltà. Implica comprendere che l'altro ha potuto agire in un modo a noi offensivo per ignoranza, disconoscenza delle nostre circostanze o altri motivi a noi nascosti. Si tratta di aprire di uno spazio per l'altro in modo che egli possa respirare, anche quando ci sentiamo offesi. Non possiamo, non dobbiamo condannare l'altro, giacché soltanto Dio è in grado di chiedere ragione per i peccati. Soltanto lui conosce il cuore.

6) Sopportare pazientemente le persone moleste

San Benedetto chiede nella sua Regola (capitolo 72, 5) di sopportare pazientemente le debolezze del corpo e lo spirito. Questa è forse una delle esperienze quotidiane alle quali non facciamo caso, ma che è fondamentale per la vita spirituale. Gli altri ci risultano molesti, sia per ragioni fisiche che spirituali. Fisiche: non riescono a seguire il nostro ritmo, hanno problemi di mobilità, non sono in grado di sopportare le stesse difficoltà che noi sopportiamo. Ma non ci danno fastidio soltanto per le loro limitatezze fisiche. Ancora più importanti sono le spirituali: gli altri sono deboli nello spirito, deboli nella fede, deboli nella morale, deboli nell'amore. Quante volte ci sentiamo portati a condannare quelli che non hanno un atteggiamento morale coerente con la fede? Ognuno deve rispondere a questa domanda, nella sicurezza di dover rispondere che noi non dobbiamo giudicare, bensì amare gli altri nelle loro debolezze.

7) Pregare Dio per i vivi e per i morti

L'ultima opera di misericordia spirituale è una confessione di fede nella risurrezione. Sin dall'inizio della Chiesa, i grandi autori hanno confessato la risurrezione della carne. Tertulliano, Ireneo hanno sottolineato come la carne accoglie la salvezza, la misericordia di Dio, lo Spirito  Santo. Se il corpo dell'uomo è stato tempio dello Spirito Santo, non si possono trattare gli altri uomini con mancanza di cura verso il loro corpo una volta che sopraggiunge la morte.

Noi cristiani siamo chiamati a trattare con cura e riverenza il corpo esanime dei nostri cari. Non possiamo abbandonarli. Superare il rigetto della morte è confessare la risurrezione. Pregare davanti ai nostri cari defunti è dare voce al loro corpo senza voce. Accompagnare i defunti al cimitero e affermare la nostra attesa della risurrezione della carne come futuro certo che ci attende a tutti.

In conclusione, dobbiamo dire che le opere di misericordia spirituale ci portano a condividere lo Spirito di Dio, lo Spirito dell'amore, rendendo testimonianza con i nostri gesti, sguardi, parole di colui che ci ama con amore eterno. La misericordia è la espressione nell'oggi della Chiesa dell'eternità dell'amore di Dio.

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18/04/2016: 4 - Le sette opere di misericordia corporale nei percorsi artistici romani > Maria Novella Lorenzale Mon, 18 Apr 2016 13:00:15 GMT newsletter-nonrispondere@ufficioliturgicoroma.it (Young at Work communication - www.yatw.eu) Le sette opere di misericordia corporale nei percorsi artistici romani
Maria Novella Lorenzale

Nel corso di uno dei più intensi discorsi tenuti alle folle prima della Passione, Gesù affronta l’argomento delle relazioni umane, precisando con chiarezza l’ undicesimo comandamento: «Ama il prossimo tuo come te stesso… da ciò dipende tutta la legge e i profeti» (Mt 22,39-40). «È più che tutti gli olocausti e i sacrifici» (Mc 12, 31). Inoltre Gesù sottolinea sei comportamenti  misericordiosi (Mt 25, 35 e seg.): dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accudire i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati. «Chi crede in me farà le opere che io faccio» (Gv 12,12); «Se sapete queste cose voi siete beati» (Gv 13, 17); «Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate l’un altro come io vi ho amati,…. da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli» (Gv 13, 34-35. 15,12); «Voi sarete miei amici se farete tutte le cose che io vi comando» (Gv 15, 14).
Come si evince dai passi dei Vangeli di Matteo e Giovanni, le opere di misericordia hanno effetti sulla salvezza e sul giudizio finale, concetto assai chiaro agli esegeti dei primi secoli cristiani; ma nonostante si trattasse di una tematica di grande centralità, ci sono pervenute testimonianze figurative solo a partire dal XII secolo, subordinate a scene di maggior impatto visivo e pedagogico, quali le rappresentazioni di vizi e virtù, o nel Giudizio Universale . Nella Pinacoteca dei Musei Vaticani è conservata una tavola lignea dipinta a tempera, di insolita forma rotonda con base rettangolare, che fino al sec. XVII era visibile nell’oratorio di S. Gregorio Nazianzeno in Campo Marzio. La ripartizione in cinque registri sovrapposti permette la raffigurazione di più scene: a) Giudizio di Dio che regge il mondo tra serafini e angeli; b) Cristo assiso in trono tra gli Apostoli e angeli; c) San Paolo che guida gli eletti, la Vergine e santo Stefano tra altri santi, opere di misericordia (vestire gli ignudi, visitare i carcerati, dar da mangiare e bere agli affamati e afflitti da infermità); d) Visione dell’inferno e del paradiso; e) La Vergine accoglie gli eletti nella Gerusalemme celeste e accoglie al suo cospetto le due donatrici . L’artista adopera uno stile più ieratico per la teofania e una narrazione spontanea, movimentata e sintetica per le altre scene. Particolarmente efficaci sono le rappresentazioni del carcerato con una mano alla guancia, nell’atteggiamento del “dolente”, già noto nell’iconografia paleocristiana catacombale, e la rara figurazione dell’infermo avvolto nel sudario a cui un personaggio misericordioso offre con una mano del cibo e con l’altra una coppa. Indubbiamente la tavola costituisce uno dei più antichi modelli di diffusione iconografica del tema in questione, non solo a Roma, ma anche in Italia. Lo stile ricorda quello delle pitture della Basilica sotterranea di  S. Clemente a Roma, ma con accenni  di  descrizione ambientale e spaziale più solidi e aggiornati che la rendono ascrivibile alla scuola romana della metà del sec. XII [fig. 1].
Nel corso del medioevo la tematica delle opere di misericordia sembra intensificarsi nella scultura architettonica d’oltralpe  e, intorno al XVI secolo, nella pittura fiamminga alimentata da una corrente di pensiero religioso, la Devotio moderna, che si incentra sulla personalità di Cristo come esempio di perfezione in contrapposizione all’imperfezione della creatura umana, e si completa con la meditazione personale della Bibbia e delle vite dei santi. La riforma dei comportamenti morali alimenterà nel secolo successivo un dibattito feroce tra riformisti protestanti e controriformisti cattolici sulla potenza salvifica delle opere, ma nonostante le divisioni religiose e politiche tra olandesi, in prevalenza anticattolici, e i fiamminghi delle Fiandre (o Paesi Bassi Spagnoli), gli intenti pedagogici dei pittori rimanevano comuni, tutti ugualmente imbevuti di umanesimo e devotio moderna. Pittori olandesi dei primi anni del 1500, come Cornelis Buys di Alkmaar  , esortavano ai buoni comportamenti illustrando dettagliatamente tutte le sette opere di misericordia [fig. 2]; i fiamminghi come Bosch e, successivamente, la dinastia dei Brueghel  e dei Teniers, ridicolizzavano spietatamente le debolezze e i difetti e i vizi, incutendo anche qualche paura dell’ Inferno. Nonostante i contatti tra pittura italiana e fiamminga non fossero mai mancati dal medioevo in poi, a Roma l’iconografia delle sette opere complete è estremamente rara, probabilmente a causa della forte contaminazione con la dottrina protestante, che ne utilizzava alcuni degli aspetti morali contro la stessa Chiesa. In Italia, dopo il trionfo della Controriforma, con l’istituzione del rito tridentino e il conseguente riordino della dottrina, il catechismo si occupa del completamento del “settenario morale”, per analogia con altri già noti , aggiungendo il “seppellire i morti”, per richiamare l’attenzione sulla santità del corpo umano in quanto contenitore dell’anima, destinato alla trasfigurazione in corpo glorioso dopo il giudizio finale. Inoltre si giungeva allo sdoppiamento delle opere di misericordia in corporali e spirituali. La Chiesa di Roma intendeva così rimarcare, in contrasto con quanto sostenuto da Lutero, che la preghiera e la fede erano nulle senza le opere (Gc 2, 17), altrimenti si vanificava il progetto di salvezza secondo il disegno della Provvidenza, secondo la vita e le opere di Gesù.
Dobbiamo attendere l’esilio coatto da Roma del Caravaggio per vedere sette opere rappresentate nel loro insieme. Sappiamo che nel 1606 Michelangelo Merisi, colpevole di omicidio, perse tutte le protezioni e gli appoggi di chi lo stimava come artista; gli si prospettò la possibilità di una fuga fuori dello Stato della Chiesa, in attesa prima del processo, poi della grazia: giunto a Napoli, realizzò la pala delle Sette opere di misericordia corporali [fig. 3] destinata al Pio Monte di Pietà, istituto sorto per contrastare le sperequazioni degli usurai non cristiani.
La scena è concitata e drammatica: un concentrato di vicende umane, sulle quali veglia il Bambino con la Madonna, mentre gli angeli gesticolanti richiamano l’uomo di Chiesa (il chierico con la torcia) a portare luce e intervenire per le necessità umane. Ma forse racchiude anche una velata invocazione per ottenere misericordia nella sua vicenda. Procedendo da sinistra, il gruppo di figure più in risalto rappresenta sinteticamente il nutrire gli affamati che sono anche carcerati, secondo l’antica iconografia della “Carità Romana”, in cui il vecchio Cimone, essendo un prigioniero condannato a morte per inedia, viene sostentato dal latte della figlia Pero, da poco divenuta madre . Di un morto da seppellire si vedono i piedi; nel gruppo di figure a sinistra sono visibili un pellegrino con la tipica conchiglia sul cappello da viaggio, cui viene offerta ospitalità; l’assetato è Sansone, che molto aveva ucciso ma si dissetava, per miracolo di pietà e provvidenza del Signore, con l’acqua scaturita dalla stessa mascella d’asino usata come arma; a terra si vede lo storpio-infermo; di fronte un personaggio ben vestito che cede il suo mantello all’ignudo.
Al di fuori di questa intensa rappresentazione, da questi anni in poi si avvia la progressiva frantumazione del settenario in singoli aspetti narrativi. Un esempio ci viene fornito nuovamente dalle opere di Caravaggio: la pala è conservata nella cappella dedicata alla Madonna di Loreto, nella Chiesa di S. Agostino a Roma, conosciuta come Madonna dei Pellegrini (1603) [fig.4]. Maria è raffigurata come una popolana, appoggiata allo stipite della porta, con un pesante Bambino in braccio; sulla soglia, due pellegrini consumati e logorati dalla fatica e coi piedi sporchi della polvere del cammino, implorano accoglienza in ginocchio: era la quarta opera di misericordia. Ma il crudo realismo strideva fortemente in un luogo di culto.
Nello stesso periodo Domenico Zampieri, detto il Domenichino, assai stimato dal colto e fine intellettuale monsignor Giovanni Battista Agucchi , aveva ottenuto un incarico di grande visibilità, quale la decorazione della cappella Polet (1614), presso la chiesa di S. Luigi dei Francesi, dedicata alla vita e alle opere di carità di S. Cecilia. Nella Roma del 1600 la scelta narrativa cadeva sulla figura della santa che più aveva sorpreso i romani in quegli anni: la tomba, ritrovata casualmente durante alcuni lavori nella cripta S. Cecilia in Trastevere, conteneva le sue spoglie intatte . Lontanissimo dagli impeti caravaggeschi, il giovane Domenico rappresentava l’ atto di carità di una ricca fanciulla che, rinunciando a qualcosa di sé, vestiva gli ignudi, donando abiti e stoffe ai bisognosi della città di Roma [fig. 5]. La resa pittorica descrittiva e movimentata, elegante nella forma ma vivace, stupisce per la capacità di esprimere la concitazione dei beneficiati che si contendono i vestiti, se li provano, o si cimentano in una contrattazione improvvisata per rivenderli a otto [scudi] come si evince dal gesto eloquente di un personaggio . Domenichino, aderendo ai dettami iconografici controriformisti sul recupero di un linguaggio chiaro nelle immagini, ispirato e didascalico nel contenuto, disciplinava quel realismo pauperista e popolano di sapore caravaggesco, spesso rifiutato come un oltraggio al sacro. Il richiamo all’umanità dei mendicanti e degli “ultimi”, veniva relegato esclusivamente a un genere pittorico specifico definito “bambocciata”, che si affermò nei luoghi dove Caravaggio aveva lasciato il segno: a Roma Peeter Van Laer nel Venditore di frittelle [fig.6] e Dirck Van Barburen, ne Il mendicante , evocavano il riferimento ai poveri e agli affamati, una sorta di memento per la misericordia, tale da giustificarne il diffuso collezionismo privato di prelati e laici.
Nel Vangelo le affermazioni di Gesù «Non di solo pane vive l’ uomo… Io sono il pane vivo disceso dal Cielo», indirizzano verso il tema dell’Ultima Cena. Il Pane vivo è offerto a chi cerca quel pane, agli affamati e assetati delle cose dello spirito: con questo significato Federico Barocci, giunto a Roma dalle Marche, nel 1607 rappresentò, nella chiesa di S. Maria della Minerva, Cristo che istituisce l’Eucaristia per suggellare il dogma della transustanziazione delle specie, questione di accesa contesa dottrinale con i protestanti [fig. 7]. La composizione della scena non presenta le caratteristiche di un ultimo convito, ma quelle di una messa nella quale Cristo è il sacerdote circondato dai fedeli che adorano e si prostrano con riverenza davanti al Cibo del Mistero che mette in comunione tra loro il Signore e gli uomini. Tutti si inchinano, tranne Giuda, che vuole ignorare ed estraniarsi nella sua scelta di tradimento.
Tra gli atti di misericordia quello di visitare gli infermi è forse il più impegnativo, poiché richiede di abbattere la barriera della paura, della contaminazione, del pregiudizio. Nelle vicende del vangelo Gesù si commuove dei mali dell’uomo e opera la guarigione del corpo come segno esteriore di una più intima guarigione dell’anima, segno invisibile ma insito in chi lo vive. I pittori hanno esaltato spesso le opere assistenziali dei santi, al tempo della lebbra come al tempo della peste: solo nel territorio di Roma, quasi negli stessi anni, le compiono san Gaetano da Thiene, san Filippo Neri e sant’Ignazio di Loyola, san Luigi Gonzaga, san Stanislao Kostka, san Camillo De Lellis. Qualcuno morì contagiato, giovanissimo; chi sopravvisse si occupò anche di educazione e istruzione gratuita, di musica e di canto da oratorio, e di cura ospedaliera, lasciando ai posteri una grande eredità di impegno umanitario. La cura degli infermi ha molti aspetti: durante la piena del Tevere del 1598, san Camillo mise in salvo i malati della corsia ospedaliera del S. Spirito completamente allagata dalla piena  [fig. 8]. Centocinquanta anni dopo, in occasione dei restauri indetti da papa Benedetto XIV Lambertini, il pittore P. Subleyras interpretava il fatto secondo le più moderne correnti storicistico-illuministiche, dando risalto all’episodio di cronaca, lasciandosi alle spalle i pietismi e le agitazioni barocche post controriformistiche, presentando il santo come una figura eroica che, simile a un novello Enea, nel momento del pericolo si caricava del peso del bisognoso e lo portava in salvo.
L’ultimo servizio di amore e di assistenza provvidenziale al prossimo si tributa a ciò che resta della persona: seppellire i morti. Francesco Barbieri, noto come il Guercino, viene incaricato nel 1621 da papa Gregorio XV Ludovisi di raffigurare la rara descrizione del Seppellimento di santa Petronilla  , tradizionalmente figlia di san Pietro: i fossori la calano nel sepolcro, mentre contemporaneamente in Cielo si celebra la sua santificazione. Il Guercino, capace di un disegno accurato alla bolognese, di foschi chiaroscuri, fine interprete di un repertorio agiografico ricchissimo e carico di sfumature dottrinali, frequentatore dei sacramenti, come ci racconta il suo biografo Malvasia , raffigura la relazione che intercorre tra la pratica misericordiosa del seppellire le spoglie mortali e il distacco dell’anima che, una volta lasciato il prezioso corporeo involucro, si ritrova in tutta umiltà al cospetto di Cristo, giudice misericordioso e accogliente amico  [fig. 9].                               

Fig.1 Fig. 1 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Fig. 2

 Fig. 3

 Fig.4

 Fig. 5

 Fig.6

 Fig. 7

 Fig. 8

 Fig. 9

 

 

 

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